CALCIO

Un campione, mille contraddizioni

Solo in Argentina è possibile capire la simbiosi che ha legato Maradona alla sua gente

25 novembre 2020
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Più che a san Francesco Solano, patrono nazionale, nella seconda metà del 20º secolo gli argentini hanno affidato le loro preghiere, i loro sogni, le loro speranze a una trinità laica: Evita Peron, Ernesto "Che" Guevara e Diego Armando Maradona. Certo, vi sono anche Carlos Gardel, la cui paternità è per altro contesa con l’Uruguay, e il Gauchito Gil, santo pagano vissuto nella provincia di Corrientes, ma se chiedete a qualsiasi argentino chi più di tutti rappresenta il suo paese, la risposta sarà sempre la stessa: Evita, il "Che" e Diego. Tre miti che in comune tra di loro hanno poco, se non il fatto di essersene andati troppo presto: Evita strappata da un tumore in un freddo luglio del 1952, il "Che" assassinato a La Higuera, in Bolivia, il 9 ottobre 1967, El Diez bruciato a soli 60 anni da un’esistenza vissuta costantemente oltre il filo del rasoio.

Mi ricordo quando nel 1978 nei mesi precedenti il Mundial, in Europa giungevano le prime voci su un ragazzino di 17 anni con il talento di un fenomeno, mentre nulla o quasi si sapeva di ciò che stava realmente accadendo in Argentina dal profilo politico. Mi ricordo l’attesa quasi spasmodica per poter vedere all’opera Maradona al Mundial di Spagna, pochi giorni dopo il suo trasferimento al Barcellona e la delusione per una Coppa andata sorta e culminata con l’espulsione per fallo di reazione contro il Brasile. Ma, soprattutto, l’edizione successiva, quella in Messico, vinta praticamente da solo e durante la quale nel giro di pochi minuti riuscì a mettere a segno il gol più “bastardo” e il gol più bello della storia; due azioni fulminee nelle quali si riassumeva tutta l’essenza di Maradona.

Personalmente, non sono mai riuscito a vedere Maradona soltanto come uno dei più grandi calciatori della storia (secondo molti, il più grande, ma è di fatto impossibile paragonare giocatori che hanno svolto il loro tragitto professionale in epoche diverse). Per molti anni l’ho considerato, pur ammirando il suo mostruoso talento, un viziato che soltanto l’approdo a Napoli (unica città europea in grado di accettarlo e capirlo) aveva salvato da un declino ancor più precoce. Le feste di cui si vociferava (con personaggi, diciamo così, poco raccomandabili), un matrimonio da nababbo in un paese che cercava di rimettersi in piedi dopo una sanguinaria dittatura (era giunto in chiesa a bordo di un'auto d’epoca appartenuta a un certo Josef Göbbels…), la libertà di fare tutto ciò che voleva (ai tempi del Napoli rientrava spesso da Buenos Aires alle 8 di domenica mattina e alle 15 era in campo)... 

Pochi giorni prima del Duemila, appena giunto per la prima volta a Buenos Aires, su un pullman a lunga percorrenza avevo incontrato una conoscente di mia moglie, la quale mi aveva spiegato per filo e per segno le ragioni per le quali Maradona era una persona abietta, rinfocolando quelle che erano le mie convinzioni. Mi bastarono pochi giorni per capire di aver incontrato il classico ago nel pagliaio. Me ne resi conto quando, poche settimane dopo, Maradona, in vacanza a Punta del Este (Uruguay) fu colto da un malore dovuto al consumo di droghe, che lo portò una prima volta a un passo dalla morte. In quei giorni, l’Argentina si fermò, come si sarebbe fermata più volte negli anni a venire. L’amore mostrato dal popolo argentino per il suo Diez, la devozione con la quale quel popolo seguì minuto per minuto l’evolversi del decorso clinico, l’assoluta mancanza di analisi critica su Maradona in quanto uomo, i canali televisivi che 24 ore su 24 parlavano esclusivamente del Pibe de oro, mi fecero capire il grado di simbiosi esistente tra Diego e la sua gente. Indissolubile, eterno, acritico, al di là del bene e del male.

Capire questo amore significa capire qualcosa in più del personaggio Maradona. Anche se non tutto. Molte sue contraddizioni, ad esempio, rimangono inesplicabili: da una parte aveva parole di stima per Evita e per il "Che" (con tanto di tatuaggio), dall’altra si era messo a disposizione del governo di Carlos Menem, pur essendo amico personale di Fidel Castro e del comandante Hugo Chavez. Da noi si direbbe “voltamarsina”, ma in Argentina a Diego ogni incongruenza era consentita. Da Buenos Aires a Rosario (che pure di campioni ne ha sfornati come il pane), dalle Ande al Rio de la Plata, da La Quiaca a Ushuaia un altro come lui non esisterà più. Per il talento, per le contraddizioni, per la simbiosi che ha saputo creare con la sua gente, per la capacità di rinascere più volte dalle ceneri di una vita sempre un passo al di là del rasoio. Con buona pace di Leo Messi.

Da oggi, il “barilete cosmico” continuerà a volare nel cuore di milioni di appassionati (argentini e non) che lo hanno accettato come persona e amato come calciatore.

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