Calcio

Quando la fine passa anche da un campo da calcio

Dalla morte di Tito, quarant'anni fa, a quella di una Jugoslavia il cui destino viene segnato per ben tre volte dal mese di maggio

La Jugoslavia è morta tre volte. Sempre a maggio. Due su un campo da calcio. Certe storie complicate, come in amore, hanno una data sul calendario che segna la fine: è quella del giorno in cui te ne vai, sbatti la porta, o i tuoi vestiti volano giù dal balcone, è quella del 'maledetto il giorno che ti ho incontrato' o del pezzo di carta che certifica il divorzio. Ecco, quella data non è mai la più importante, perché quando sei lì, non ci sei più da un pezzo. Non lo sai, ma tutto era già finito da quella volta là che tu, che lei.

Il giorno in cui la Jugoslavia ha iniziato a morire è il 4 maggio 1980. Il campo si chiama Poljud, ed è quello dei campioni di Jugoslavia, i croati dell’Hajduk Spalato. Di fronte hanno la Stella Rossa di Belgrado, che avevano battuto nella gara di andata, ma che in quel momento è prima in classifica con due punti di vantaggio. L’atmosfera è elettrica, lo stadio è pieno, ma sugli spalti non sono molti i tifosi della Stella Rossa. Non è mancanza di sostegno da parte dei serbi, ma una precisa scelta della polizia jugoslava, che ha limitato la trasferta temendo scontri fra i due gruppi 'ultrà': uno, quello dell’Hajduk, chiamato Torcida, non solo è il più antico d’Europa, ma anche quello considerato più caldo e temuto. La terna arbitrale, guidata da Husref Muharemagic, è bosniaca. Non un dettaglio, col senno di poi. Piuttosto un beffardo scherzo del destino. Alle 19 e 12, sul risultato di 1-1, un uomo entra in campo attirando l’attenzione dell’arbitro. Gli sta dicendo che Tito, il presidente della Jugoslavia, è morto. È il 43esimo minuto di gioco: la partita viene sospesa. Lo stesso sta accadendo al Maksimir di Zagabria, dove si gioca Dinamo-Zeljeznicar. 

A Spalato, Muharemagić fa avvicinare le squadre e dà a tutti la notizia. Alcuni giocatori crollano a terra, altri scoppiano a piangere. Mentre i giocatori delle due squadre, visibilmente sconvolti, vengono portati a centrocampo, dai megafoni dello stadio una voce annuncia ai 50 mila presenti quello che i calciatori sanno già: Josip Broz, il compagno Tito, è morto. In uno dei pochi video di quei momenti si vede la terna arbitrale in lacrime, i calciatori schierati senza un ordine: serbi, croati e bosniaci che indossano tre divise diverse in campo, come accadrà un decennio più tardi in guerra, ma qui sono uniti e non divisi. Cattolici, ortodossi e musulmani che - nonostante le differenze - si sentono ancora un popolo, un Paese.

Tra i più disperati c’è Zlatko Vujović, giovane bomber dell’Hajduk nato a Sarajevo. Altro figlio di una Jugoslavia multietnica che, dieci anni più tardi, sarà su un altro campo da calcio a versare lacrime. Le immagini proseguono, si vede un fotografo sotto choc che si asciuga le lacrime e si sente il pianto disperato di una donna seguito da un coro spontaneo che si leva in tutto lo stadio: «Druže Tito, mi ti se kunemo, da sa tvoga puta ne skrenemo» ('Compagno Tito, te lo giuriamo, dal tuo cammino non ci allontaneremo'), una delle tante canzoni dedicate al padre-padrone di uno Stato che aveva già iniziato a collassare lentamente su se stesso.

Tito, che era malato e aveva già superato gli 80 anni, stava programmando la sua successione già dal 1974, ma i suoi eredi designati morivano tutti prima di lui. C’era un piano B, che prevedeva maggiori autonomie per gli Stati della Federazione e un’alternanza nei ruoli di potere, ma nessuno in grado di metterlo in atto senza fare danni. Quel 4 maggio del 1980, lontano dai campi da calcio dove si stava svolgendo la prima veglia funebre pubblica dell’uomo che teneva in pugno il Paese dal lontano 1953, gli osservatori più attenti vedevano in controluce l’inizio della fine della Jugoslavia.

Il talento, il carisma e un rigore

Passò un decennio lento, fatto di economia calante e nazionalismo crescente. Di grandi speranze e successi mancati per una Nazionale di calcio tra le più talentuose e scellerate dal pianeta. Nel 1987 arriva finalmente un successo, seppur minore: il titolo del Mondiale Under 20. A segnare l’unico gol della Jugoslavia nei 90 minuti e poi il rigore decisivo nella finale con i tedeschi dell’ovest è un ragazzo croato di nemmeno 20 anni: si chiama Zvonimir Boban. Un talento puro, un giocatore carismatico a tal punto da diventare, già giovanissimo, capitano di una delle squadre più importanti del Paese, la Dinamo Zagabria.

Dieci anni dopo la morte di Tito, sempre a maggio - il 13 per l’esattezza - del 1990, Boban è in campo per giocare contro la Stella Rossa. I nazionalismi che negli anni Ottanta si erano fatti largo silenziosamente, nel frattempo sono esplosi. Allo stadio Maksimir, uno di quelli in cui si pianse per la morte di Tito, erano arrivati tremila 'ultrà' della Stella Rossa, la Delije, nata solamente un anno prima: il suo capo si chiamava Željko Ražnatović, più noto come Arkan, destinato a diventare uno dei signori della guerra dei Balcani. La partita non aveva in sé molto da dire, visto che la Stella Rossa aveva praticamente già vinto il campionato. E quindi allo stadio ad aspettarli non c’erano molti tifosi croati interessati alla gara, quelli che c’erano - circa 15 mila - appartenevano alle frange più estreme dei Bad Blue Boys, nazionalisti fedeli all’uomo che aveva vinto, sei giorni prima, le elezioni locali: Franjo Tudjman. Colui che di lì a poco diventerà il discusso presidente della Croazia fino al giorno della sua morte, nel 1999.

Gli 'ultrà' di Belgrado provocano, i croati rispondono: si scatena il caos, con la polizia - storicamente filoserba e più morbida con quelli della capitale - che comincia a caricare i tifosi della Dinamo. Spuntano coltelli, spranghe, pistole. La situazione va presto fuori controllo. I croati invadono il campo e nel caos un poliziotto prende a manganellate un tifoso. A vendicarlo c’è l’eroe del Mondiale Under 20, Boban, che colpisce con un calcio volante il poliziotto, sfondandogli la mascella. Si scoprirà poi che quel poliziotto era un bosniaco musulmano: ancora una volta i protagonisti sono gli stessi della guerra ormai alle porte: bosniaci, serbi, croati. Intanto scatta la caccia all’uomo. Boban riesce a rientrare negli spogliatoi, salverà la pelle, ma non la partecipazione a Italia ’90, il Mondiale che più di ogni altro la Jugoslavia poteva vincere. Con Boban a casa, squalificato dalla sua stessa federazione, a eliminare la Jugoslavia ai quarti di finale ci pensa l’Argentina: fatali i calci di rigore. Il capitano è Zlatko Vujović, il giovane attaccante dell’Hajduk che dieci anni prima si disperava per Tito.

Il trionfo a canestro ultimo sussulto

Due mesi dopo toccherà al basket fare quello che non era riuscito al calcio: vincere i Mondiali, proprio in Argentina. A rovinare la festa, l’ingresso sul parquet di un tifoso con un vessillo croato, strappato in diretta tv dal pivot serbo Vlade Divac. Altra benzina su un fuoco ormai acceso. Ci sarà ancora il tempo di vedere la Stella Rossa vincere la Coppa Campioni del 1991, sempre a maggio, contro l’Olympique Marsiglia. In quella squadra, che non era una nazionale ma un club, giocavano calciatori di ogni parte del Paese: bosniaci, macedoni, montenegrini, serbi e croati. Fu l’ultimo sussulto. La Nazionale che in quell’inverno riuscì a qualificarsi per Euro ’92, quell’Europeo non lo giocò mai. Il 30 - ovviamente maggio - 1992, l’Onu votò l’embargo per la Jugoslavia precipitata in una guerra fratricida. A meno di due settimane dall’inizio della competizione, toccò ai danesi - poi vincitori a sorpresa del torneo - subentrare. La Jugoslavia, dilaniata dall’odio etnico, si sfalderà fino a rimanere una federazione di due Stati: Serbia e Montenegro. Il 26 maggio 2006 il Montenegro se ne va, e la Jugoslavia, che aveva già perso la stella rossa al centro della sua bandiera, perde ogni motivo di esistere. Firma le carte dell’ultimo divorzio. Di sette frontiere, sei Stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni e due alfabeti - come si diceva ai tempi in cui c’era un solo capo, Tito - non resta che un unico, grande, fragoroso fallimento.

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