Calcio

Vladimir Petkovic: ‘Ci ho messo del mio’

Intervista al commissario tecnico della Nazionale rossocrociata: dalla Prima Lega alla Svizzera, un percorso di conquiste ‘fatte con le mie mani, con il mio sudore’

29 febbraio 2020
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Rispetto a quegli anni – commenta Vladimir Petkovic riferendosi ai tempi dell’Yb – ho maggiore esperienza. Ero e sono anche adesso uno che cerca di migliorarsi. In questi anni ho imparato a sopportare più facilmente certe cose, a ragionare con più distacco da altre, a focalizzare meglio le questioni veramente necessarie. Ho imparato molto anche a livello tecnico-tattico, emozionale e di motivazioni».

Cosa c’è ancora del vecchio Vlado? «Il Vlado uomo è rimasto lo stesso. Lungo il percorso che ho fatto sono sempre rimasto con i piedi per terra. Non mi sono mai montato la testa, lo reputo una fortuna. Ho sempre fatto il passo secondo la gamba. Ho un atteggiamento più positivo verso questa professione. Ho acquisito consapevolezza, e maggior convinzione nelle mie idee». Dalle sue parole emerge sempre una forma di orgoglio, per una carriera segnata da conquiste alle quali ha lavorato duramente. «È ancora così. Ogni passo che ho fatto me lo sono dovuto guadagnare. Sono fiero di quanto ho ottenuto, perché ce l’ho fatta con le mie mani e con il mio sudore. Con l’aiuto di chi mi è stato vicino nei vari contesti in cui ho operato, ma soprattutto grazie a me stesso. Nei miei successi, e più in generale nel lavoro che ho svolto e svolgo, ci ho messo tanto del mio».

Il calcio è in continua evoluzione. Muta più in fretta di quanto si sviluppino le persone o gli allenatori. Questo è ancora il calcio di Petkovic? «Sì. Il calcio evolve, la vita evolve. Se ti rapporti al mondo del pallone, devi adeguarti, come persona e come tecnico. Cambiano le dinamiche, cambiano i rapporti con i calciatori. Bisogna vivere alla giornata, godere appieno del momento, sempre facendo tesoro dell’esperienza accumulata in tanti anni da carriera. Quella, è sempre d’aiuto. In definitiva, si tratta di trovare la chiave d’accesso alle persone con cui lavori, nella fattispecie ai giocatori. Trovando l’approccio e le parole giuste. L’aspetto che più di tutti è cambiato, nel calcio, è l’individualismo dei calciatori, oltre naturalmente alla fisicità e alla velocità di cui sono capaci. Ciò che invece non è cambiato affatto, è il peso che i calciatori hanno nell’economia dei risultati: non esiste allenatore che possa ottenere risultati senza giocatori validi. Era e sarà sempre così».

Quando ripensa alle scelte fatte in carriera, emerge un percorso lineare o c’è qualcosa che non rifarebbe? «Sono partito dalla Prima Lega per approdare alla Nazionale. È un bel percorso, l’ho fatto sempre restando fedele a me stesso. Forse una o l’altra tappa poteva concretizzarsi prima, ma il destino ha voluto altrimenti, permettendomi comunque di progredire. E di fare sempre passi avanti, ciò che mi rende particolarmente fiero». Rimpianti? «No. Alla fine ottieni sempre quello che meriti di ottenere. Nella carriera di un allenatore ci sono momenti anche complicati, con titoli sfiorati, o vittorie sfuggite all’ultimo momento. Nel calcio, così come nella vita, tutto torna. Ho investito tanto nel calcio, da cui ho però ricevuto molto».

Un mix tra Wenger e Capello

Il punto più alto? «La Coppa Italia vinta con la Lazio fu molto importante. Ricordo con piacere le promozioni con il Malcantone Agno e con il Bellinzona. In Nazionale abbiano ottenuto qualche bel risultato, in singoli confronti, ma le maggiori soddisfazioni arrivano dalla continuità dei risultati, dalla qualificazione ai grandi eventi, o alla finale di Nations League. Sono maggiormente indicativi della bontà del lavoro svolto dalla squadra».
Il rapporto con i giocatori: distacco, complicità, dialogo... Dove si situa Petkovic? «Mi baso tanto sulle sensazioni del momento, sulle situazioni che si vengono a creare. Ragionando anche in termini umani, ponendo l’uomo davanti al giocatore. Abbiamo fatto delle valutazioni dei nostri calciatori, con parametri anche scientifici, per entrare in sintonia con loro. Mi piacciono i colloqui individuali, ma preferisco farli in maniera informale, nella hall dell’albergo al loro arrivo in ritiro, facendo una passeggiata, mangiando qualcosa. In contesti così, c’è più leggerezza, spontaneità» In occasione dei ritiri, ci sono nazionali reduci da ottimi momenti nei rispettivi club, altri che invece sono in difficoltà. Come cambia l’atteggiamento del tecnico, quando li accoglie? «Bisogna giocare d’anticipo, affrontandoli prima, dando loro certezze, e la percezione di essere seguiti e sostenuti. Nei momenti difficili, i giocatori vanno accompagnati. Noi lo facciamo, e con alcuni di loro i risultati si sono visti: quando la situazione è migliorata, ci hanno restituito davvero tanto». Allenatori ai quali si ispira? «Non cerco di imitare nessuno. Mi piace però carpire piccoli dettagli, dai colleghi, per poi farli miei. Facevo così già da giocatore: annotavo le cose che i miei allenatori proponevano in allenamento. Ho sempre cercato di sviluppare il mio stile personale, adattandomi ai miei giocatori. Mi sono posto quale modello la bellezza del gioco di Wenger quando era all’Arsenal unita alla concretezza delle squadre di Fabio Capello. È affascinante fare un misto di questi due stili».

Come convive con la fama che deriva dall’essere un personaggio pubblico conosciuto ai più? «Con la massima serenità, fa parte della mia professione. Ho un ruolo, sono pagato per onorarlo al meglio anche pubblicamente. Cerco di accontentare chi me lo chiede con una foto, o un autografo, perché non mi costa niente. Fa parte della mia attività e mi fa piacere farlo. Con il sorriso, sempre». Quanti meriti si prende per l’affetto della gente per la Nazionale? «Grazie per la domanda, non tutti ritengono che la gente ami questa squadra. Io ritengo invece che le sia molto vicina. Ha saputo proporsi con il gioco, con i risultati, e con una serie di iniziative popolari molto apprezzate, si pensi solo ai collegiali di Lugano». Tra una trasferta e l’altra, esiste ancora la dimensione casa, la sensazione del ritorno a casa? «Certo, ed è la cosa più importante, unitamente alla salute. Il lavoro arriva dopo. Ne va della qualità della vita, della quale sono io il responsabile. Per me funziona davvero solo se riesco a rispondere alle esigenze della mia famiglia». Tornerebbe in un club? Se parliamo di ambizioni, l’ultima era il rinnovo del contratto, e l’ho ottenuto. L’opzione è sempre aperta, ma nel calcio pianificare è difficile. Bisogna vivere il momento e ottenere il massimo in termini di risultati. È la sola via possibile per rendersi appetibile a una società».

Il rapporto con la stampa. «Ho buoni rapporti con la maggior parte dei giornalisti. Con taluni, invece... Ho cercato di risolvere alcune incomprensioni con il dialogo, ma è durata poco, e i problemi si sono riproposti. Se qualcuno ha qualcosa da rimproverami sul mio modo di fare o di lavorare, mi piacerebbe che mi venisse detto chiaramente, con dati oggettivi alla mano, senza comode generalizzazioni. Non temo le critiche, purché ci sia un confronto costruttivo dal quale potrei trarre spunti interessanti».

‘Ho inculcato una forma di pensiero, poi tradotta in un sistema di gioco’ 

La Nazionale: la piccola Svizzera che non va mai oltre il solito traguardo, o la Svizzera che si qualifica sempre a ogni appuntamento importante, con le qualità per fare un passo successivo? Realismo senza grandi aspettative, o ambizioni da sbandierare? n«Il realismo è d’aiuto, questo è certo. Bisogna però lavorare per creare i presupposti affinché le speranze possano un giorno non essere sempre vane. A certi livelli, e a certi stadi della competizione, per passare un turno tutti i fattori devono incidere in maniera positiva (i dettagli, la buona sorte, la forma psicofisica dei giocatori), e a noi non è ancora successo. Solo la felice coincidenza di tutti gli elementi può favorire un exploit. La Svizzera ha già ottenuto ottimi risultati. Andare oltre a quello che già abbiamo raggiunto, significa fare un exploit, è bene ribadirlo.

Dall’entrata in carica a oggi, quale evoluzione ha avuto la sua Nazionale? «Per me era importante indicare una via e convincere i giocatori a seguirla. Inculcare una forma di pensiero e, passo dopo passo, trasformarlo in un sistema di gioco. Abbiamo accusato qualche calo, questo è vero, ma la squadra è viva. Lo dimostra il fatto che dopo i problemi accusati, siamo sempre riusciti a rialzarsi e a fare un passo avanti. C’è maggiore fisicità, c’è più corsa. e ci sono più giovani. Giovani, ma già con esperienze importanti alle spalle in club di prima fascia».

Meglio tante forti personalità, in gruppo, o è preferibile qualche soldatino obbediente in più? «Un sano mix delle due cose. Per la squadra sono molto importanti i giocatori che lavorano tanto per il collettivo, o che accettano la realtà di un gruppo di 23 anime, non tutte sempre mandate in campo. Tuttavia, per gli exploit servono i calciatori che all’improvviso esplodono, facendo qualcosa di inaspettato».

Ha sempre avuto parole di elogio per il suo staff. Che peso ha, nell’ottica del suo lavoro? «Oggi, a certi livelli, uno staff qualificato e formato da specialisti è imprescindibile. Il mio team mi deve supportare, e deve avere un peso specifico, all’interno della squadra. A me piace esercitare una certa leadership, ci metto la faccia, ma cerco sempre di ascoltare tutti, perché voglio creare una squadra che non sia solo sulla carta, bensì ragioni e operi come un’unità anche in campo. Ai miei occhi conta molto la positività che il mio staff trasmette ai ragazzi. Io, per natura, sono abbastanza serio, per cui chiedo a loro di metterci un sorriso in più». 

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