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Tommie Smith, una vita spesa senza rimpianti

Compie 76 anni il protagonista di uno dei gesti più iconici del Novecento: il pugno guantato a Messico 68. Nei giorni in cui lo sport Usa si è unito per George Floyd

5 giugno 2020
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Una vita spesa bene. Una vita difficile, dura, trascorsa sul filo del rasoio di un razzismo che negli Stati Uniti non gli ha mai perdonato quel gesto. Ma quando si volta indietro a osservare i suoi 76 anni, Tommie Smith sa con certezza che ne è valsa la pena: «Era una missione divina. E sì: non ho rimpianti! Il testimone è stato passato alle giovani generazioni. E sì: lo rifarei di nuovo. E lo farei ogni giorno». Domani Tommie Smith compie 76 anni e quel pugno guantato di nero, alzato nel cielo di Città del Messico in compagnia del connazionale John Carlos, ha spaccato le coscienze di un’intera generazione. Smith e Carlos, quel gesto di protesta a favore dei diritti civili degli afro-americani lo hanno pagato caro, con minacce di morte e molti anni trascorsi ai margini del mondo accademico al quale appartenevano. Quella sera del 16 ottobre 1968, dopo aver conquistato la medaglia d’oro (Smith) e di bronzo (Carlos) nei 200 metri olimpici, i due studenti della San José State University, salirono sul podio scalzi per ricordare la povertà dei neri d’America, con una collana di perline a simboleggiare i linciaggi subiti dagli afro-americani e al momento dell’inno nazionale chinarono il capo e alzarono il pugno guantato di nero, quello destro per Smith, quello sinistro per Carlos (quest’ultimo aveva dimenticato in albergo i suoi guanti, per cui si erano divisi quelli di Smith). Sul loro petto spiccava la spilla con l’acronimo Ophr (Olympic Project for Human Rights), movimento che nei mesi precedenti aveva cercato di ottenere il boicottaggio dei Giochi da parte degli atleti neri.

Un gesto, come detto, costato caro sia ai due statunitensi, sia a Peter Norman, l’australiano medaglia d’argento che per solidarietà aveva voluto indossare la spilla dell’Ophr (in patria fu boicottato, gli fu impedito di partecipare alle Olimpiadi del 1972, non venne coinvolto nell’organizzazione, né fu invitato alle Olimpiadi di Sydney e solo nel 2012, sei anni dopo la sua morte, il Parlamento australiano gli ha chiesto scusa). Smith e Carlos furono immediatamente espulsi dalla squadra Usa e dal villaggio olimpico, su pressione del presidente del Cio, quel Avery Brundage che nel 1936, da presidente del comitato olimpico Usa, aveva fatto pressione affinché gli Stati Uniti non boicottassero i Giochi di Berlino (era in ottimi rapporti, anche d’affari, con Josef Goebbels). Solo nel 2005, su pressione dell’artista portoghese Ricardo Gouveia, l’università di San José State accettò di erigere un monumento che raffigura Smith e Carlos sul podio di Città del Messico durante il loro atto di protesta. Il secondo gradino, quello occupato da Norman, è stato lasciato libero su esplicita richiesta dell’australiano, in modo da permettere ai visitatori di farsi fotografare a sostegno della causa per i diritti civili.

Lo sport in ginocchio per Floyd

Nel 1968 la protesta di Città del Messico si inseriva nel contesto di una società dilaniata dall’odio razziale e politico, a sei mesi dall’uccisione di Martin Luther King, a tre da quella di Robert Kennedy e a otto dallo shock collettivo rappresentato dall’Offensiva del Tet scatenata dal generale Giap in Vietnam. A 52 anni di distanza, gli Stati Uniti stanno vivendo in questi giorni una sorta di nuovo Sessantotto, dopo l’assassinio di George Floyd a opera di un poliziotto bianco, l’ennesimo perpetrato dalle forze dell’ordine nei confronti della popolazione di colore. Dalla costa Est a quella Ovest le città sono in subbuglio e il mondo dello sport è uscito allo scoperto prendendo posizione a favore dei dimostranti al grido di "Black Lives Matter" e "I Can't Breath". Dalle stelle del basket a quelle del football, gli sportivi hanno deciso di cavalcare la rabbia del mondo afro-americano e si sono posti in prima fila nella richiesta di maggiore giustizia sociale. Molti di loro, come LeBron James, da anni si battono per la causa, altri si sono mossi sull’onda dell’emozione collettiva. Ha preso posizione anche Colin Kaepernick che in un tweet ha scritto: “Quando la civiltà porta alla morte, la rivolta è l’unica reazione logica. Le grida di pace pioveranno a dirotto e quando lo faranno, cadranno nel vuoto, perché la vostra violenza ha portato a questa resistenza. Abbiamo il diritto di reagire! Rest in Power, George Floyd”. Colin Kaepernick, capigliatura afro anni Settanta, ex quarterback di San Francisco, fa parte di quegli atleti che, proprio come Smith e Carlos, sono stati capaci di anticipare i tempi, mettendo in gioco le loro stesse carriere pur di difendere i loro ideali. Nel 2016, il 32.enne nato da madre bianca, padre nero e adottato da genitori bianchi (Rick e Teresa Kaepernick), aveva iniziato una semplice quanto devastante forma di protesta, mettendo un ginocchio a terra durante l’esecuzione dell’inno statunitense prima delle partite della Nfl. Un gesto solitario che nel giro di poche settimane trovò l’adesione di centinaia di sportivi di ogni disciplina, ma non l’appoggio del neo-eletto presidente Donald Trump il quale, novello Brundage, aveva chiesto esplicitamente il licenziamento del giocatore, così come oggi minaccia l'intervento dell'esercito contro i manifestanti. Kaep non fu cacciato immediatamente, ma divenne un paria non appena il suo contratto andò in scadenza: San Francisco non lo rinnovò e nessun altra squadra della Nfl decise di ingaggiare un giocatore diventato troppo scomodo. Un filo sottile sembra unire Smith, Carlos e Kaepernick. Un filo al quale si può forse dare nome e cognome: Harry Edwards. Professore a San José State e poi detentore per oltre trent’anni della cattedra di sociologia a Berkeley (e pedinato per decenni dalla Fbi di J. Edgar Hoover), Edwards fu l’ideatore dell’Olympic Project for Human Rights e mentore di molti atleti di colore, tra i quali, ovviamente, anche Smith e Carlos. E mentore, allo stesso modo, di Kaepernick, negli anni in cui entrambi (Edwards in qualità di consulente) lavoravano per i 49.ers.

Il rifiuto di Muhammad Ali

Tra gli sportivi che hanno pagato il loro attivismo sociale e politico, al fianco di Smith, Carlos e Kaepernick non si può dimenticare Muhammad Ali. Campione del mondo dei pesi massimi, aveva perso la corona e rischiato cinque anni di prigione per le sue battaglie a difesa della popolazione afro-americana e per aver rifiutato di servire in Vietnam. Come quella degli altri tre, anche la sua carriera sarebbe potuta essere molto più lunga e ricca di gloria se avesse deciso di chinare il capo e tacere. Ma non lo ha fatto e non lo stanno facendo, in questi giorni di tumulti molti altri sportivi in tutto il mondo. Smith, Carlos, Ali e Kaepernick, ognuno a suo tempo, ognuno a suo modo, hanno indicato la via: ora sta alla generazione dei LeBron James far sì che la fiaccola della protesta non si spenga, come era invece accaduto da Città del Messico a San Francisco.

Il precedente olimpico di Sohn Kee-chung

A ben vedere, quella di Smith e Carlos non fu la prima clamorosa protesta politica nel contesto olimpico. Trentadue anni prima, il giapponese Son Ketei, dominatore della maratona, si rese protagonista di un gesto molto simile a quello dei due statunitensi: sul podio di Berlino 1936, ascoltò l’inno giapponese a capo chino, indossando una tuta priva dello stemma nipponico. Son Kitai non era però il suo nome e il Giappone non era la sua patria: in realtà si chiamava Sohn Kee-chung ed era coreano, ma in quegli anni la Corea viveva sotto la dominazione giapponese. Quell’oro, che sarebbe stato il primo della Corea alle Olimpiadi, il Cio non lo ha mai restituito ai legittimi proprietari e figura tutt’ora nell’albo d’oro del Sol Levante.

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