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Rick Rinaldi giocatore fuori dagli schemi. "Fu dura smettere''

Intervista all'ex campione Usa, protagonista del basket ticinese degli anni d'oro. "A fine carriera ho sofferto di depressione. Ne sono uscito aiutando gli altri”

20 ottobre 2018
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Dopo 16 anni – dal 50° della Muraltese nel 2002 – Rick Rinaldi è stato di passaggio in Ticino. Con un gruppo del quale fa parte anche Bob Morse, altro mito del basket (soprattutto varesino), ha fatto tappa dall’amico Guido Casparis all’Hotel Ronco e non ci siamo fatti scappare l’occasione per rivederlo – con me Marco, Daniele e Giorgio – e farci due chiacchiere, ricordando i tempi in cui era prima compagno di squadra nel Bellinzona in Serie B e in A, e poi “mio” giocatore alla Muraltese nella lega cadetta.
È il Rick di sempre, gioviale, scanzonato ma decisamente schietto e aperto, capace di ricordare molte cose vissute nelle nostre due squadre. Rick, per quelli degli ‘anta’, era un vero mito, il giocatore spettacolare che trascinava i tifosi e la palestra Arti e Mestieri a Bellinzona e quella di Locarno erano sempre piene: lui garantiva spettacolo, con quel tiro dagli otto metri che oggi vale tre punti e un tempo, purtroppo, solo due.
Rick, cosa rappresenta il Ticino per te?
È sempre un’emozione forte tornare tra voi, perché è stato un periodo importante della mia vita. Qui apprezzo tutto, dalle montagne al lago, da Piazza Grande ai castelli, ambienti dove ho vissuto momenti molto belli e intensi e dove ho trovato amicizie che durano nel tempo e nel cuore.
Cinque stagioni, tre a Bellinzona
e due nella Muraltese, tra serie B e serie A. Che anni sono stati?
I tifosi e anche la gente non tifosa veniva in palestra perché c’era spettacolo, anche se non si vinceva sempre. Il basket era una calamita e io ero felice di queste testimonianze. Mi ricordo che un sabato di febbraio nevicava. Sono arrivato in palestra a piedi perché non si poteva fare altrimenti, ma c’era comunque un grande pubblico. Allora ho detto al Paso che volevo fare qualcosa di speciale per ringraziarlo di questa fedeltà: mi pare fosse contro il Renens, ho messo 78 punti, 49 nel secondo tempo, un record che credo sia tale ancora oggi.
Già una settimana prima, a Neuchâtel, avevi fatto un botto oltre i 70 punti...
Beh, è stato un po’ particolare: non volevo che si andasse ai supplementari perché avevo un appuntamento in Ticino che non potevo mancare e i tempi erano stretti. Siamo sul 102 pari a 7-8 secondi dalla fine. Ricevo palla, faccio tre palleggi e tiro da poco oltre la metà campo: 102 a 104, doccia, treno e via, appuntamento rispettato.
Ma con i compagni di squadra e con gli
allenatori come funzionava?
Non ero un giocatore facile da gestire, perché io andavo in campo solo per vincere e facevo di tutto per farlo. Spesso ero fuori dagli schemi, cercavo sempre il canestro, però con la consapevolezza di giocare anche per la squadra. E allora posso dire che cercavo anche di mettere in condizione i miei compagni di dare il massimo, di farli rendere secondo le loro possibilità.
Fra Bellinzona e Muraltese c’era grande
rivalità. Come è stato passare da una
sponda all’altra?
Diciamo facile, visto che c’erano altri ex compagni: ma quelli di Muralto mi hanno sempre rinfacciato un derby che loro hanno perso dopo un mio canestro a fil di sirena, manco a dirlo, da nove metri che ci aveva portato ai supplementari, partita poi vinta dal Bellinzona. Ma poi ho avuto modo di ripagarli con partite di spessore e belle vittorie.
E dopo il basket in Ticino il rientro negli States...
Già, e sono stati tempi duri per me. Un aneddoto: a 34 anni, sono entrato in un negozio a prendere un paio di scarpe da basket e ho dovuto pagarlo! Lì ho preso coscienza che era tutto finito, e non è una battuta. Era prendere consapevolezza che dovevo voltare pagina. Ma non ho passato un bel periodo, spesso ero in crisi depressiva e non riuscivo a uscirne. Ho fatto diversi lavori, in una televisione a metà tempo, coach all’università a metà tempo, camp estivi di basket e altri lavoretti vari, ma nulla di duraturo.
La svolta?
Finalmente, nel 1999, ho cominciato a lavorare a un progetto di inserimento, a fine carriera, dei giocatori professionisti nel mondo “reale”. Un percorso che conoscevo bene e vissuto sulla mia pelle. Il progetto Sportscaster U, con la Nbpa, società che accomuna la Nba con il sindacato dei giocatori, in un programma della Syracuse University, poi adottato anche da altre università. Per me sono stati 18 anni di lavoro molto intenso, ho seguito oltre 70 giocatori fra i quali anche un certo Shaquille O’Neal.
Un appoggio fondamentale per i giocatori?
Direi proprio di sì, perché molti di loro terminano di giocare, magari con un bel conto in banca, ma senza nessuna idea del mondo all’infuori del basket e di come lo si vive. Per anni hanno vissuto in “prima classe” (alberghi, aerei, sfizi...), non hanno mai dovuto preoccuparsi di nulla, tutto era programmato e i loro bisogni soddisfatti. Ma, terminato il percorso professionistico, non sapevano da che parte girarsi, con il rischio di perdere tutto in poco tempo, compresa la loro identità. Ecco perché questo progetto ha avuto successo, proprio perché è fondamentale metterli nella condizione di cominciare bene una loro seconda vita, quella nel mondo vero, quello con i problemi quotidiani e un contesto da scoprire sulla propria pelle. Insomma, sviluppare la fiducia in sé stessi, in un milionario incapace di muoversi da solo.
E oggi?
Oggi non faccio più nulla. Ho una vita tranquilla, seguo i miei tre figli anche se sono tutti ultra ventenni, mi godo il tempo con mia moglie e mi occupo di faccende quotidiane, senza stress, dove il basket non è più una priorità. La vita offre molto, basta saper scegliere ciò che è meglio in quel momento. Come essere qui oggi.

Emozioni nell’ultimo abbraccio, un sorriso e una battuta sul prossimo incontro: ci vediamo fra trent’anni? Facciamo prima, non si sa mai. Bye.

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