Racconto della settimana

Non di più colpo che Soave vento

26 settembre 2015
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I versi indicati si riferivano al mito di Giasone, che, durante la spedizione degli Argonauti, prima sedusse e poi abbandonò, già in dolce attesa, la sventurata Ipsipile. Il perfido giovanotto riservò un’analoga sorte anche alla ben più nota Medea. Pietro Caimi dunque, dopo aver colpito il potere religioso, che invece di difendere i bisognosi corteggiava i potenti, rivolse la sua vendetta contro la borghesia locale, esportatrice di punta di tanti figli illegittimi. Con glaciale determinazione, seppe però aspettare la giusta occasione: nel frattempo si sposò con una donna di Origlio, ebbe tre figli e amministrò sapientemente l’eredità paterna. L’occasione giusta per Pietro si presentò a più di vent’anni dai fatti di Bruzella e precisamente nel giugno del 1864, al Grand Cafè al Porto a Lugano. Pasquale Pizzagalli, proprietario di alcune filande della regione, raccontava ai commensali le sue avventure amorose, in uno squallido susseguirsi di strizzatine d’occhio e colpi di gomito. Non era un problema per lui avvicinare e piegare alla propria volontà le fanciulle che, per un tozzo di pane, lavoravano nella florida industria serica, per poi disfarsene quando, in stato interessante, la loro presenza diventava troppo ingombrante. Inutile dire che il Pizzagalli, poco dopo, fece una gran brutta fine: mentre rientrava da una visita alla filanda, cadde all’improvviso dal cavallo imbizzarrito e morì sul colpo a causa di una brutta ferita alla testa. Nessuno, a parte il cavallo, notò l’elegante quarantenne che si allontanava dal sentiero; lo specchio, che aveva riflesso i raggi del sole verso gli spaventati occhi equini, tornò indisturbato qualche ora più tardi alla parete del bagno di Pietro Caimi.  

Come nel caso del primo omicidio, solo la nuda descrizione dei fatti, nessuna parola di pentimento nelle righe autografe. La vista di quell’Inferno cominciava a darmi la nausea: il sangue del bisnonno di mio nonno, per quanto diluito dalle generazioni, ancora circolava nelle mie vene e la sua presenza mi stava molto stretta. Provavo una naturale simpatia verso quell’uomo colto e raffinato; avrei senz’altro sentito anche dell’empatia verso le derive abbandoniche della sua difficile infanzia, ma un omicidio era decisamente fuori dalle mie corde, figuriamoci due. Affrontai quindi con grande fatica l’ultima tappa della confessione. Le indicazioni erano quelle che ormai già conoscevo: “Fé la vendetta del superbo strupo: Canto XXVII 85-111”.

Sfogliai più e più volte il volume senza trovare il riferimento indicato, finché improvvisamente capii: la pagina, proprio quella dell’ultimo delitto, era stata strappata.

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