Curiosità

Il camoscio dell’Appennino rischia l’estinzione entro il 2070

Uno studio delle università di Siena e Pavia individua la causa nel riscaldamento globale, che raziona le risorse alimentari

(Ti-Press)
24 agosto 2020
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Siena – Il camoscio appenninico è a rischio di estinzione nel giro dei prossimi 50 anni a causa del riscaldamento globale. È quanto indica uno studio dell'Università di Siena e dell'Università di Pavia condotto nell'habitat storico ossia nel Parco nazionale dell'Abruzzo.

Per lo studio ci sarà una forte diminuzione di esemplari entro il 2070 della specie scientificamente classificata come 'Rupicapra pyrenaica ornata'. "Le montagne sono habitat fortemente stagionali, che richiedono adattamenti speciali per gli animali selvatici e la dinamica della popolazione degli erbivori di montagna è in gran parte determinata dalla disponibilità di ricche risorse alimentari per sostenere l'allattamento e lo svezzamento durante l'estate", spiegano i ricercatori. Quindi, in base a loro simulazioni sulle temperature primaverili future e sulla presenza di adeguate risorse alimentari, essi "prevedono una mortalità invernale dei piccoli di camoscio dal 28 al 95 per cento fino, quindi, alla quasi estinzione entro il 2070 nel nucleo del suo areale storico nel Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise".

Dagli anni Settanta l'aumento delle temperature primaverili (ben 2°C) nell'area di studio, nel cuore dell'areale storico del camoscio nel Parco Nazionale d'Abruzzo ha anticipato di quasi un mese l'inizio della stagione vegetativa nelle praterie d'altitudine più basse, comprese tra 1700 e 2000 metri, e fortemente ridotto la vegetazione pascolabile dal camoscio, influenzando negativamente la sopravvivenza invernale dei piccoli.

La compresenza del cervo, ecologicamente competitivo nei confronti del camoscio, e la ricolonizzazione boschiva delle praterie contribuiscono a impoverire ulteriormente le risorse già messe a rischio dal cambio climatico. Inoltre, spiegano gli scienziati, "il camoscio appenninico è affetto da una variabilità genetica molto ridotta, forse determinata in passato da lunghi periodi vissuti a basso numero, che può renderlo ancor meno capace di reagire a rapidi cambiamenti ambientali rispetto ad altre specie di erbivori di montagna"

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