L'editoriale

Giocare d’anticipo

28 gennaio 2016
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Ne avremmo certamente fatto a meno, ma dobbiamo ammettere che non poteva esserci dimostrazione migliore dell’importanza della giornata della Memoria, di quella fornita dal caso emerso ieri in Ticino, che ha visto tornare a galla idee filonaziste e folli teorie razziste postate su Facebook. Come se nulla fosse accaduto e milioni di vittime fossero state sterminate per niente. Vecchi demoni, nuovi media. Se poi si scopre che chi ha pubblicamente esternato, non è un privato cittadino, bensì un funzionario pubblico e precisamente un sergente della polizia cantonale, cioè un tutore dell’ordine al quale lo Stato ha delegato l’esercizio di funzioni anche delicate, be’ diciamolo: ricordare di non dimenticare è un grande imperativo etico. Il caso è scoppiato proprio mentre stavamo constatando come oggi, anno domini 2016, sia sempre più difficile trovare testimoni diretti di quanto accaduto sotto il Terzo Reich: non fantascienza di orrori, ma inferno reale. E pure quanto sia sempre più difficile spiegare ai ragazzi di oggi come quella barbarie fu possibile e come non sia garantito da nessuno che non possa più ripetersi in mutate forme, se non si lavora per non dimenticare. Nella giornata della Memoria, ma non solo. Ma torniamo alla cronaca e chiediamoci: la reazione delle Istituzioni per i messaggi incriminati è stata da subito di ferma condanna? Così ha fatto ieri, appena venuto alla luce il caso, il Comando della Polizia cantonale ‘stigmatizzando il tenore dei contenuti del post’. Ma – domanda non da poco – è vero che il sergente postava ormai da qualche tempo messaggi e foto più che discutibili? Post di fatto rintracciabili in rete? Se sì, ci chiediamo con amarezza e preoccupazione: come mai solo ieri sono scattati i provvedimenti disciplinari (ma attenzione: indossa ancora la divisa, non è stato nemmeno sospeso!) e la relativa inchiesta penale per l’ipotesi di reato di istigazione alla discriminazione razziale? Forse che solo ieri l’agente ha compiuto il passo falso penalmente rilevante? È comunque un bene che il caso sia venuto alla luce su denuncia del Gas, anche se avremmo preferito che a scoprire il tutto fosse stato lo stesso Comando della polizia. In simili casi, indipendentemente da un’inchiesta e da una condanna penale, si deve intervenire con decisione (come ben evidenzia Giorgio Galusero a pagina 3), per evitare polemiche, derive e imbarazzanti macchie sulle divise. Resta però un ulteriore passo da compiere. Come è avvenuto nell’esercito, che ha dovuto e voluto fare piazza pulita di chi nei suoi ranghi manifestava simpatie filonaziste, senza titubanze. È quindi importante capire se anche in altri corpi, chiamati a svolgere compiti delicati quale quello della polizia, vi siano membri che la pensano come il sergente finito sotto inchiesta penale. Non solo per una questione di immagine del corpo, ma perché la polizia (come le guardie di confine, come l’esercito) è e sarà sempre più confrontata con emergenze. Schengen – lo abbiamo scritto ancora ieri – è ormai stato messo in naftalina e alle nostre frontiere i disperati busseranno molto probabilmente ancor più di prima. In questo clima, essere tutore dell’ordine sarà sempre più difficile, per le provocazioni alle quali si sarà ‘volens nolens’ esposti, per le realtà anche crude con le quali si avrà a che fare, per il fatto che restando troppo esposti al fronte si rischia di diventare, anche per una sorta di autodifesa, insensibili alle miserie dell’altro. Sono queste miscele esplosive che vanno il più possibile intercettate giocando d’anticipo. Nel caso in questione così non è stato. C’è voluto il Gas. Se no il piede dov’era? Sulla frizione o sul freno?

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