L'editoriale

Alleggerimento bancario

23 gennaio 2015
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Si scrive ‘Quantitative easing’ ma si legge ‘salvataggio bancario’. Le tanto attese misure ‘non convenzionali’ della Bce sono arrivate e non contengono novità eclatanti rispetto alle attese, se non che la ‘condivisione del rischio’ (di fatto la parziale e indiretta mutualizzazione del debito sovrano, che non è solo quello degli Stati) varrà solo il 20%. Il resto, la gran parte, del programma di acquisto di titoli pubblici e privati sarà a carico delle singole banche centrali nazionali che formano il cosiddetto ‘eurosistema’. I tedeschi – non tutti – tirano un sospiro di sollievo e l’autonomia della Bce è andata ancora una volta a farsi benedire. Come sempre accade da quando è scoppiata la crisi – erroneamente chiamata dell’euro, in realtà degli squilibri commerciali in seno all’eurozona – quando c’è un appuntamento importante del board della Bce le interferenze tedesche si fanno sentire e tanto. È accaduto anche ieri. E il ‘bazooka’ di Mario Draghi rischia di essere derubricato in un rumoroso petardo. Perché si tratta prioritariamente di un piano di salvataggio bancario mascherato? Semplicemente perché il ‘Quantitative easing’ all’europea non è altro che un’ulteriore implementazione, in atto da alcuni mesi, del piano di acquisti di astrusi strumenti finanziari detenuti dalle banche commerciali (tedesche in testa). Parliamo dei ‘Covered bond’, degli ‘Asset backed securities’ e via elencando. Insomma, tutte le diavolerie che la finanza creativa, soprattutto anglosassone ha creato negli ultimi decenni. In pratica l’idea della Bce è di alleggerire i bilanci degli istituti finanziari da questi titoli in modo che possano allentare le maglie ancora troppo strette del credito alle imprese e alle famiglie. Solo una parte di tali acquisti sulla carta ‘monstre’ (60 miliardi al mese a partire da marzo, per i prossimi 19 mesi per un totale di oltre mille miliardi di euro) riguarda i bond pubblici. Non concerne, per esempio, i titoli greci e nemmeno quelli degli altri Stati già sotto tutela (e a che prezzo) della Troika. E non è nemmeno un finanziamento diretto dei deficit delle amministrazioni pubbliche, come temono i tedeschi, in quanto gli acquisti avverranno solo sul mercato secondario, quello interbancario, per intenderci. L’emittente (per semplicità lo Stato) ha già collocato una prima volta sul mercato il suo debito per finanziare il deficit pubblico e se qualcuno (Bce o consorelle nazionali) lo riacquista una seconda volta, finanzia l’ultimo detentore (banca commerciale) e non certo chi ha creato quello strumento. Almeno non direttamente. I trattati europei che vietano la mutualizzazione del debito sono rispettati in pieno. Bisognava però dare un seguito concreto a quella famosa frase del 26 luglio 2012 di Mario Draghi (‘whatever it takes to preserve euro’, ‘qualunque cosa serva per salvare l’euro’). Uno degli obiettivi della Bce è di aumentare la massa monetaria e generare i presupposti per creare un minimo d’inflazione e portarla vicino al 2%. Per fare ciò ha bisogno di svalutare l’euro nei confronti principalmente del dollaro, valuta di riferimento del commercio internazionale, in modo che prodotti e servizi dell’eurozona siano più economici e quindi competitivi rispetto a quelli di altre aree monetarie. Nello stesso tempo le materie prime (petrolio) si pagano in dollari e quindi dovrebbero ‘importare’ inflazione. Ma con il prezzo del barile in calo, tale effetto collaterale difficilmente arriverà nei prossimi mesi. L’inflazione non è solo una conseguenza della politica monetaria. I prezzi dei beni di consumo aumentano se c’è domanda, e quindi se c’è reddito (occupazione) e fiducia. Fattori che mancano nelle economie della periferia europea.

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