laR+ L'analisi

Perché è sembrata una festa liberatoria

Sono molteplici le sfide a cui Joe Biden dovrà far fronte, da Trump stesso alla Russia, senza dimenticare le sue promesse riforme sociali

Joe Biden (Ap)
9 novembre 2020
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L’elezione di Obama segnò l’ingresso alla Casa Bianca del primo afro-americano; e oggi Biden vi entra con il maggior numero di voti della storia (75 milioni) e portando per la prima volta alla vice-presidenza una donna, per di più figlia dell’immigrazione più recente.  Due record. E in entrambi i casi si sono ritrovati fra le mani profonde crisi economiche ereditate dai predecessori repubblicani: nel 2008 il più grave dissesto del dopoguerra (esplosione della bolla dei subprime, favorita da una politica monetaria iper-espansionistica e dalla deregolamentazione dei mercati finanziari); ora tocca a Biden, che debutta dovendo subito fronteggiare il terremoto economico-sanitario del Covid 19, acuito dalla sconsiderata gestione di chi, con caparbietà tetragona e la solita beffarda prepotenza, vorrebbe barricarsi nella trincea della palazzina al numero 1.600 di Pennsylvania Avenue di Washington, altro che ‘potere dal popolo e al popolo’, come teorizzavano i padri fondatori.

Ma soprattutto il neo-eletto ha davanti a sé uno spettro sociale ancora più profondo, difficile, minaccioso: quello che abbonda nei pozzi avvelenati riempiti da un divisivo, oltre che anti-istituzionale, Donald Trump. Divisivo per istinto e scelleratezza, convinzione ideologica e calcolo politico. Tanto da lasciare al suo successore una nazione non solo divisa, ma pericolosamente lacerata, dove il razzismo più o meno esplicito e il “suprematismo bianco” da lui canagliescamente blanditi si nutrono soprattutto della grande paura identitaria di una comunità che fra trent’anni non sarà più maggioranza nel paese. C’è anche il resto, certo, nell’ “America first” trumpiana: a cominciare dalla rivolta dei “penultimi”, ceti medi mortificati e impoveriti da chi (beneficiando della colpevole distrazione o addirittura complicità della cosiddetta 'sinistra'), con la globalizzazione si é riempito solo le proprie tasche: parliamo pur sempre del Paese dove l‘1% della popolazione detiene oltre il 40% della ricchezza nazionale. Tuttavia, nulla come le inquietanti faglie di ogni genere, prodotte e approfondite in quattro anni, rappresentano il lascito di Trump. Ecco perché la festa di quella parte di America che ha vinto ha potuto avere anche il senso di una liberazione. Ed ecco perché Joe Biden - che di una élite troppo spesso distratta ha pur fatto parte in mezzo secolo di militanza politica - ha speso così tante e accalorate parole sulla necessità della riconciliazione nazionale, come salvagente della democrazia.

Tutti i neo-vincitori affermano e promettono di voler essere il “presidente di tutti”. Affermazione scontata, spesso semplicemente retoriche. Ma mai sono state affermazioni tanto necessarie e probabilmente sentite come in questo momento. E come assoluta necessità. Giusto crederci. Poi, certo, si possono, si devono analizzare tutti gli altri ostacoli lungo la strada della futura presidenza Biden: la mina vagante che rappresenterà comunque Trump con la sua imprevedibilità, popolarità e sete di rabbiosa rivincita; un programma ricco di promesse riforme sociali che rischiano di finire sotto la costante mannaia dei rivali repubblicani se controllassero un ramo del parlamento; una palude politica incattivita e meno portata ai compromessi; la problematica sintesi fra le diverse 'anime' del suo partito; la sfida cinese e quella di una Russia putiniana che, insieme ai sovranisti di ogni calibro, non ha mai nascosto la sintonia con Trump. Dunque: coraggio, Mr. President.

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