laR+ L'analisi

La solidarietà europea non aiuta i migranti

Il Patto presentato da Ursula von del Leyen lascia irrisolti i temi che più dividono e conferma la chiusura delle frontiere

26 settembre 2020
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Si chiama “solidarietà obbligatoria” ed è il topolino partorito dalla montagna, con il nome di Patto europeo sulla Migrazione, illustrato in settimana dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. 

Indisposta, o non in grado di modificare il “regolamento di Dublino” (in sintesi quello che accolla ai paesi di arrivo l’intero onere di accoglienza ed eventuale respingimento dei migranti), la Commissione ha ripiegato su un meccanismo che fa affidamento sulla buona volontà degli stati membri: i paesi che non accetteranno di accogliere sul proprio territorio i migranti (proporzionalmente alla propria forza economica e alla popolazione) dovranno farsi carico del loro rimpatrio, pena l’obbligo di prenderseli.

Non è un granché, e si fatica a dire che è meglio di niente. Basterebbe riascoltare l’accorata risposta della stessa Von der Leyen a un eurodeputato di estrema destra (“parliamo di persone che hanno il diritto di cercare un futuro migliore”) per misurare lo scarto tra la retorica e la prassi. Mentre il suo “aboliremo Dublino” è rimasto una frase ad effetto.

È pur vero, del resto, che la Commissione deve misurarsi con le volontà dei ventisette governi che ne sono azionisti: singolarmente, o in alleanze d'occasione, concentrati sulla difesa di politiche nazionali indifferenti (o conflittuali) nei confronti di una supposta “volontà comune”. Finzione smascherata non tanto dal prevedibile rifiuto pregiudiziale dei paesi centroeuropei di ogni “imposizione” (e qui sarebbe interessante chiedere loro conto di quanto la loro integrazione nell'Ue è pesata sulle imposizioni, fiscali, dei cittadini degli altri paesi) ma da episodi ben più esemplari: proprio mentre la Commissione illustrava il Patto, le autorità francesi rifiutavano l'approdo sulle proprie rive alla Alan Kurdi, la nave con a bordo un centinaio di migranti raccolti nel Mediterraneo, reindirizzandola verso l'Italia, che solo il giorno successivo ne ha autorizzato lo sbarco. Sarà che la solidarietà obbligatoria non era ancora entrata a regime…

In questo scenario vi sono elementi decisivi che tuttavia spesso si ignorano. Il primo è che sul lungo periodo la crescita delle richieste d'asilo non dipende (non del tutto) da situazioni di crisi umanitarie, come fu per la Siria nel 2015, ma proprio dalla classificazione quale reato del tentato ingresso in un Paese, cosicché al migrante non resta che tentare la carta della richiesta d'asilo. In Italia fu l'infame legge Bossi-Fini (Salvini non ha inventato nulla), in altri Paesi sono legislazioni analoghe. Ciò determina un aumento esponenziale delle procedure di verifica, una dilatazione di tempi ingestibile e soprattutto una caotica e disumana gestione dei centri di permanenza cosiddetta temporanea. Dai quali si tenta la fuga o nei quali si resta imprigionati. E basta pensare a che cosa è accaduto nei centri come quello di Lesbo per capire che cosa significhi. La propaganda xenofoba si nutre di queste situazioni, e il paradosso è che proprio una politica asservita al suo discorso ne è all'origine (quando non lo rivendica con vanto, da Orbán in giù).

Politica che per parare le accuse di essere “debole” insiste nell'annuncio di nuove misure difensive dei “confini esterni” (dello spazio Schengen, per intenderci). Attraverso un rafforzamento del meccanismo di vigilanza dei confini marittimi e terrestri, e la ricerca di accordi con i “Paesi di partenza”. Un approccio che sinora sull'”aiuto a casa loro” ha visto prevalere l'”imprigioniamoli a casa loro”, passando per accordi che espongono l'Europa, o i singoli Paesi, al ricatto di gente come Erdogan o delle bande che si spartiscono la Libia. Il più recente rapporto di Amnesty International sulle condizioni di detenzione dei migranti nella stessa Libia fuga ogni dubbio su che cosa significhi il “fermiamoli prima che partano”, spacciato per “ragionevolezza”. Una pezza insufficiente a coprire una coscienza che più sporca non potrebbe essere.

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