laR+ L'analisi

Piccoli sovranisti in soccorso dello zar

La repressione in Bielorussia non scalda i cuoi dei nazionalisti europei allineati agli interessi di Putin

21 settembre 2020
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Se si tratta del loro “campione” Vladimir Putin, i nazional-sovranisti, così sbrigativi nell’imputare all’Unione Europea quasi tutti i guai del vecchio continente, fanno a gara nell’esibirsi in un rumoroso... mutismo. Si veda la crisi politica e la dura repressione della rivolta popolare in Bielorussia. E’ bastato che “l’ultimo dittatore europeo”, AleKsandr Lukashenko, chiedesse il fraterno sostegno, anche militare, del Cremlino, per allineare i populisti dietro il carro di Putin, che sulle frontiere del confinante paese ha prontamente inviato i suoi carri armati. Al parlamento europeo, qualche giorno fa, i leghisti di Salvini (sotto inchiesta anche per presunti accordi sottobanco con Mosca) si sono astenuti da una risoluzione che condanna l’autocrate di Kiev, ne disconosce la vittoria nelle recenti elezioni, e prefigura nuove sanzioni economiche contro i vertici del regime.
Intendiamoci, nulla è terso sotto il cielo politico bielorusso. Intrighi, manovre, opacità non mancano, come per altre pagine non proprio esemplari che hanno scandito i lunghi e non esauriti sussulti post-sovietici. Ma si guarda al coraggio di centinaia di migliaia di persone (anche, se non soprattutto, donne) e di non pochi operai delle grandi fabbriche nel cuore o alla periferia delle principali città, é difficile, diciamo pure impossibile, pensare che sia “pulito” quell’83 per cento di suffragi che l’uomo, l’apparatchick, al potere ininterrottamente da oltre vent’anni, ha esibito per legittimare l’ennesimo mandato presidenziale.

Del resto, si sa: quel voto è stato in gran parte una farsa, con candidati dell’opposizione in galera o scartati di forza dalla consultazione, un’informazione praticamente a senso unico, urne controllabili da parte di scrutatori selezioni dal potere, giornalisti stranieri tenuti alla larga. Uno scenario che, visti i metodi “velenosi” usati anche da Mosca, sbrigativa quando si tratta di mettere all’angolo i propri oppositori, sicuramente non dispiacciono e non preoccupano. Soprattutto se si tratta di evitare un’altra pesante sconfitta lungo la strada di quella Federazione, di quel crinale Euro-asiatico su cui Putin contava di edificare sulle rovine dell’impero sovietico. Federazione fragile, appena accennata, che da Unione Doganale doveva diventare anche Patto di reciproca difesa. Se quel progetto ha ancora senso, il leader post-sovietico non può permettersi in Bielorussia un’altra Maidan, cioé un’altra Ucraina: anche perché attorno a Kiev non c’è una Crimea da annettere e un altro Dombass da sospingere verso la secessione armata. Scatta così “l’aiuto fraterno”. Anche se l’uomo del Cremlino conosce bene le ambiguitàmdel suo alleato bielorusso: che negli Anni Novanta rifiutò di entrare nella Federazione russa, e che ancora all’inizio dell’attuale contestazione popolare puntava il dito accusatore verso Mosca. Ma nulla di tutto questo puòm scuotere la pazienza di un buon giocatore di scacchi come Putin. Piuttosto di perdere una pedina, meglio allearsi al congeniale e brutale alleato Lukashenko. Può temere un boomerang, il novello zar? Molti lo dicono, pochi ci credono.

Chi correrà in soccorso ai malmenati manifestanti di Kiev? La debole Europa? L’America con le sue convulsioni elettorali? Del resto può anche pensare, Putin, che nessuno in Occidente si mobilita per la Bielorussia mentre i suoi corifei amici sovranisti continueranno a reggergli la coda cercando di arrivare al potere.

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