L'analisi

Santa Sofia come arma di ‘distrazione’ di massa per Erdogan

La conversione in moschea dell'ex basilica per creare tensioni con l’Occidente, per rafforzare la coesione nazionale e depistare le preoccupazioni economiche

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Santa Sofia sarà dunque la 3’272esima moschea di Istanbul. Nel suo palazzo dalle 1’100 stanze, l’autocrate islamo-nazionalista Erdogan può celebrare la propria vittoria dopo che il più alto tribunale amministrativo turco ha revocato il decreto risalente al 1934 e che porta la firma di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna e secolare. Il presidente, che 10 anni prima aveva abolito il califfato ottomano, ne aveva fatto un museo «da offrire all’umanità». Eretta dal cristianissimo imperatore Giustiniano nel VI secolo sulle rovine di una precedente basilica costruita sotto Costantino, Hagia Sophia (in greco, la santa saggezza) rimase per un millennio, prima di essere spodestata dalla basilica di San Pietro a Roma, il più imponente monumento della Cristianità. Quella di questi giorni non è la prima metamorfosi politico-religiosa della splendida chiesa: nel 1054 fu al centro dello scisma tra papato romano e patriarcato di Costantinopoli, nel 1204 fu vittima del «fuoco amico» saccheggiata e in parte distrutta dai crociati avidi di oro e reliquie, e poi quella data cardine della storia, il 1453, quando la «nuova Gerusalemme» fu conquistata dagli ottomani di Mehmet II che la trasformò in moschea, nascondendo con uno strato di calce mosaici e affreschi e facendo svettare 4 minareti. Nulla di straordinario: i cristiani a Cordova avevano già a loro volta da tempo eretto la cattedrale dell’Immacolata Concezione su una sontuosa moschea (a sua volta sorta sulle rovine di una chiesa visigotica). Poi, come detto, la svolta laica con la quale Atatürk 5 secoli più tardi volle mettere fine alle «guerre di religione». L’islamizzazione oggi in Turchia procede a passo spedito: nell’ultimo decennio altre 4 chiese «Santa Sofia» sono state trasformate in moschee. La quinta è ovviamente quella di gran lunga più importante ed emblematica. Anche perché il suo splendore fu all’origine della conversione degli slavi al cristianesimo: «Ci hanno condotti laddove celebrano il loro Dio e non sapevamo più se eravamo in cielo o in terra», scrivevano gli emissari di Vladimir, il principe di Kiev che non esitò ad abbracciare anche a nome del suo popolo la nuova fede. Recep Tayyip Erdogan invoca oggi le prerogative nazionali e il diritto «così come in Siria o Libia» ad agire in nome degli interessi della Turchia. Dal 2002 il processo di trasformazione oscurantista di una società che era riuscita, caso raro nel mondo musulmano, ad affrancarsi dalle maglie dell’oppressione religiosa, sembra inesorabile. Erdogan si presenta come l’anti Atatürk anche se respinge le accuse di voler far rivivere, da sultano, il califfato. Del padre della Turchia moderna aborrisce tutto, lui ne vuole essere l’antitesi. Il suo islamo-nazionalismo che la spietata repressione contro curdi e oppositori (recente l’incarcerazione di tre parlamentari e due esponenti di Amnesty International, la chiusura di un’università e di un paio di canali Tv considerati scomodi) rischia di trasformare in islamo-fascismo non è l’unica spiegazione all’origine dell’ennesima metamorfosi della basilica. Erdogan ha vinto tutte le consultazioni dal 2002, ma la crisi economica e il suo crescente autoritarismo lo vedono oggi in grande difficoltà. Un sondaggio nazionale gli attribuisce il 36% dei consensi, 10 punti in meno della coalizione delle forze di opposizione. Creare tensioni con l’Occidente per rafforzare la coesione nazionale e depistare le preoccupazioni create dalla crisi dell’economia: ecco allora che quella di Santa Sofia diventa l’ideale arma di distrazione di massa per il regime islamista.

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