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Un referendum su Trump

Le elezioni statunitensi del 3 novembre saranno un pronunciamento sul presidente

13 giugno 2020
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Che il voto di novembre sarà un referendum su Donald Trump più che un’elezione presidenziale è già ora ben chiaro. Vuoi perché il presidente ha fatto della propria persona il contenuto politico del mandato, vuoi per la scelta al ribasso del candidato democratico, nuova conferma dello sbandamento del partito.

Si sa che le elezioni presidenziali statunitensi sono perlopiù una contesa interna a un’oligarchia che dimora al vertice della società, nella quale un ruolo determinante ha la disponibilità di enormi quantità di denaro (oltre, dall’ultima volta almeno, all’intervento diretto di potenze esterne). Vista da qui: più una grande kermesse che un atto politico maturo. Ma è pur vero che talvolta la presenza di candidati con una personalità peculiare può determinare mutamenti di portata estesa al resto del mondo. Ed è stato il caso di Trump.

Così, il paradosso della campagna elettorale già in corso è che il solo argomento usato sarà Trump stesso. Da parte dell’interessato, e questo non stupisce, ma anche da parte di Joe Biden. E ciò – sebbene sia parte di una tattica collaudata far prevalere gli attacchi al presidente in cerca del secondo mandato sull’esposizione di programmi alternativi – ne indica la debolezza.

Se questa prospettiva è plausibile, bisognerà allora attendersi mesi di esasperazione dei toni, praticata però nella carne di una società divisa e provata come non avveniva dalla Grande Depressione. Con, in aggiunta, il ritorno delle mai sopite tensioni figlie del razzismo connaturato a quella stessa società. 

Un contesto ideale per Trump, eletto per vendicare l’affronto dell’ingresso di un afroamericano alla Casa Bianca, e che ha scelto di amplificarne il potenziale distruttivo indicando Tulsa, in Oklahoma, come punto d’avvio della nuova campagna. Quella Tulsa teatro nel 1921 del massacro di centinaia di afroamericani, uno dei più gravi nella storia degli States.

D’altra parte, Trump non sarebbe il primo a cercare di avvantaggiarsi da disordini e instabilità. Gli storici del presente ricordano quanto giovò l’ondata di rivolte del 1968 a Richard Nixon, succeduto a Lyndon Johnson essendo riuscito ad accreditarsi come candidato “law and order”. Le stesse parole usate da Trump per cercare di intimidire i manifestanti di Minneapolis e per ingraziarsi la reazione bianca, dalla più estrema alla “moderata”.

Non è detto che funzioni questa volta. Anzi, secondo alcune analisi, Trump è oggi piuttosto un pilota alla guida di una macchina il cui controllo gli è sfuggito. Se è così, bisogna allora attendersi di peggio, non essendo Trump uno che fa prevalere il giudizio sul tornaconto.

Che poi i sondaggi lo diano in netto svantaggio dietro a Biden non significa un granché: il precedente di Hillary Clinton dovrebbe essere istruttivo, mentre l’accelerazione dei tempi di politica e comunicazione rendono i mesi che mancano alle elezioni scenari di potenziali e ripetuti ribaltamenti di fronte. Con, quale sola costante, l’indiscussa egemonia culturale imposta da Trump sul linguaggio della politica. Così è ancora più desolante sentire Biden affermare che “l’esercito scorterà Trump fuori dalla Casa Bianca”. Una resa allo stile del peggiore presidente della storia recente. O la conferma che chiunque va bene al suo posto, ma non è un’alternativa.

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