L'ospite

Non torneremo più alla normalità?

Andrea Ghiringhelli: 'Un terrificante eccesso di stupidità ingombra le nostre vite e noi ne trascuriamo pericolosamente il potenziale nocivo'

Anche il telelavoro da consegnare ai posteri? (Ti-Press)

Difficile cambiare argomento. Il coronavirus è al centro di tutto: se ne parla sui giornali, alla televisione, e, distanza sociale permettendolo, è tema quotidiano di conversazione fra le persone. C’è chi drammatizza e chi esorcizza, ognuno cerca la formula giusta per attenuare l’apprensione. Il virus ha aperto una voragine sotto i nostri piedi, ha fatto crollare convinzioni e cancellato la confortevole apatia e l’indifferenza di comodo del mondo di prima. Sono in imbarazzo anche i potenti della terra, quelli che i problemi li risolvono ignorandoli. Resiste ancora Bolsonaro che declassa il contagio a fastidioso raffreddore, e Trump che dà il suo geniale contributo alla scienza: un’iniezione di disinfettante e via, il contagio è debellato. Evidentemente la prevalenza del cretino coinvolge anche i piani alti della politica.

Ma oggi l’esercizio più diffuso è quello di chiederci come saremo dopo. Mi permetto, spinto dai miei tre fedeli lettori, qualche precisazione in più a integrazione di un precedente contributo. Molti sostengono che la straordinaria dimostrazione di solidarietà, dedizione e umanità di medici e infermieri e di tutto il personale sanitario sia la fotografia del mondo che verrà: più umano, solidale, partecipe. Già lo rammentai. Sono auspici ricorrenti di fronte alle catastrofi: si promette di cambiare le cose, ma poi si torna alle vecchie abitudini, agli egoismi e ai vizi di sempre. Lo storico austriaco Walter Scheidel ci informa che le conseguenze demografiche, sociali ed economiche delle epidemie ebbero spesso un effetto livellatore fra ricchi e poveri, ma conclude che oggi è da escludere che ciò si ripeta. Ne è convinto anche Gideon Lichfield, studioso del Mit di Boston: intitola un suo saggio ‘We’re not going back to normal’, non torneremo più alla normalità, e aggiunge subito che ci saranno alcuni che, come al solito, perderanno più di altri e saranno quelli che hanno già perso troppo.

E allora la domanda decisiva: ne usciremo migliori e marceremo tutti uniti sotto la bandiera della solidarietà, della fratellanza, di una maggiore equità, e ci prenderemo (metaforicamente) per mano e spianeremo muri e confini? No. Ne usciremo forzatamente diversi, ma non necessariamente migliori. Il fatto è che questi mesi ci hanno imposto nuovi comportamenti forse indelebili e suggerito nuove prospettive nei modi di lavorare, di produrre, di considerare l’ambiente, di comunicare, ma c’è molto artificio e di forzato in tutto questo, e mi par di scorgere, già nelle piccole cose, la voglia di ripristinare il mondo di prima: l’aria pulita e i cieli tersi di queste settimane, il poco traffico e le strade sgombre, il lavoro a casa che rende e riduce gli spostamenti vanno bene, ma – già lo si vede – sono dai più considerati una parentesi obbligata, da interrompere e chiudere in fretta perché il nostro benessere, così come lo vogliamo, va in malora e bisogna riprendere a produrre a pieno regime e ripristinare l’economia tradizionale, magari con un’iniezione di shut-in economy, on line, on demand.

Un dirigente pubblico incrociato per caso conferma: mi fa capire che non è il caso di insistere con la green economy, e anche il telelavoro lasciamolo ai posteri perché sono troppi i lavativi che ne approfittano: così mi disse, e io a pensare mestamente, tra me e me, che un terrificante eccesso di stupidità ingombra le nostre vite e noi ne trascuriamo pericolosamente il potenziale nocivo. Avevo concluso – tempo fa, non so dove – che il primo passo per cambiare doveva essere quello di adottare un nuovo modo di far politica, di guardare all’economia, di considerare i nostri rapporti con il pianeta. Mi correggo e preciso: sono solo parole vuote se prima non vi sarà una vera ribellione delle coscienze, una rivoluzione della consapevolezza. Per andare all’essenziale: significa – rubo il pensiero a Zygmunt Bauman – percepire l’abisso esistente fra ciò che continuiamo a fare e ciò che dovremmo fare, fra ciò che è veramente importante e ciò che conta per quelli che decidono. Va bene applaudire, ma poi diamoci da fare.

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