L'analisi

Porte aperte, solo un po'

In Ticino potrà entrare soltanto chi lavora. Non gli altri italiani, i visitatori, i turisti. Qualche domanda è inevitabile

Frontalieri
(Ti-Press)
9 marzo 2020
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“Economy first”? Sì, prima l’economia. Che però è comunque e per diversi aspetti connessa alla difesa della salute. Senza l’una non c’è l’altra. In Ticino potrà dunque entrare, con maggiori controlli e qualche restrizione, soltanto chi ci lavora. Non gli altri. Non gli altri italiani, i visitatori, i turisti. A tempi eccezionalmente gravi, una decisione (di Bellinzona, adottata insieme a Berna, che è competente in materia) altrettanto straordinaria. Storica, purtroppo, di una storia a cui facciamo ancora fatica a credere, ad accettare pienamente, ad afferrare gli strumenti per affrontarlo, e batterlo. L’obiettivo è chiaro: di fronte alla progressione del virus in Ticino e soprattutto nel Nord Italia, meno si entra e meno contagi si potrebbero registrare al di qua del confine. Ma qualche domanda è inevitabile. Sui modi di applicazione dello storico provvedimento, per cominciare. Come e con quali tempi si potranno passare al setaccio e controllare ogni giorno quasi settantamila frontalieri che corrono verso fabbriche, uffici, piattaforme della logistica; come individuare i viaggiatori italiani che dovessero decidere di transitare per esempio attraverso i Grigioni per poi scendere nel nostro cantone; cosa avverrà con i viaggiatori provenienti in treno da aree della Penisola che non sono incluse nelle zone ‘arancione’ e non hanno registrato casi di infezione; e cosa per italiani che atterrassero per esempio negli aeroporti di Basilea e Zurigo e intendessero raggiungere il Ticino; infine, non è che un carpentiere frontaliere ha meno possibilità di ammalarsi di un turista. E poi si vedrà, nel disordine comunicativo e spesso la bagarre politica nel paese confinante, quanto terranno le rassicurazioni del ministro degli Esteri italiano Luigi di Maio (non proprio in auge), che nelle scorse settimane “ammoniva” che Roma avrà la memoria lunga e non dimenticherà l’affronto di nazioni che hanno ricacciato a casa dei cittadini italiani temuti come “nuovi untori”.

Quindi confine semiaperto, uno spiraglio, solo per i frontalieri. Per evitare che il Ticino, che già registra le prime sofferenze, finisca economicamente in ginocchio, mentre agli imprenditori locali si chiede di fare la loro parte. Entrerà quindi anche il personale del settore sanitario: medici e paramedici, che nell’immediato rappresentano una componente imprescindibile sul fronte prioritario della salute. Oltre 3’500 operatori che quotidianamente attraversano il confine, necessari ad un comparto (ospedali, cliniche, case per anziani) che già non ne può fare a meno in tempi di normalità, e che diventano ancor più essenziali in un settore ancor più sotto pressione per il moltiplicarsi dei casi di contagio da coronavirus. E potrebbe esserlo ancora di più, in questo inedito e prolungato “stress-test”, se si producessero falle importanti nella rete di contenimento, che deve reggersi anche se non soprattutto sul senso di responsabilità individuale.

Del resto, meglio non farsi illusioni: la successione delle cattive notizie sembra per un certo tempo destinata a progredire, il picco delle infezioni potrebbe essere lontano, i ‘bollettini di guerra’ contro il nemico invisibile segnare nuove ‘sconfitte’, e non per nulla tre giorni fa, e per la prima volta, il medico cantonale Giorgio Merlani definiva la nostra situazione “grave”, con quell’accenno al fatto che è il momento di concentrarsi sulla protezione dei “nostri nonni” (sinceri ringraziamenti, da parte di un ultrasettantenne). Pensiamoci: non è che in percentuale il numero dei contaminati di casa nostra sia poi così lontano da quello che si registra nella Lombardia ‘motore economico d’Italia’. Per fortuna rassicurante è invece, e ancora, il grado di bassa mortalità in tutta la Svizzera.

Ma non è affatto detto che l’annuncio di ieri sulla frontiera parzialmente aperta, e il relativo sospiro di sollievo, possa considerarsi definitivo, e il Consiglio di Stato, come del resto il comune cittadino, deve essersi chiesto quali indicazioni, quali proiezioni (forse tenute nel cassetto per evitare ulteriori fiammate di inquietudine e angosce) siano a disposizioni della autorità sanitarie e politiche italiane per essere spinti a varare una ‘quarantena’ tanto drastica, così geograficamente estesa, e così densamente popolata. Non più i cinquantamila dentro la “zona rossa” del Lodigiano con un lembo di Veneto, ma milioni di persone (l’intera Lombardia più 14 province) a cui viene teoricamente imposta una sorta di auto-blindatura che, per cominciare, durerà quasi un mese. Come controllarne il rispetto, e come verranno interpretate le possibilità di spostamento “solo per comprovate necessità”? Diventa una missione praticamente impossibile senza la volonterosa adesione dei cittadini. L’Italia non è (fortunatamente) la Cina di Xi Jinping, e il Nord Italia non è Wuhan (come l’aveva definita il governatore lombardo Fontana).

Quali ulteriori “corazze protettive” verrebbero forgiate qualora lo scenario dovesse aggravarsi? Ed è pensabile che una parte del personale sanitario italiano operante in Ticino possa essere attratto, o addirittura reclutato, dall’offerta di lavoro in un’Italia che tenta disperatamente di assumere ventimila operatori per immetterli immediatamente in settori sanitari ormai sull’orlo del collasso? Con quali eventuali conseguenze per il Ticino? E con quali riflessioni, anche in Consiglio di Stato, sul mantenimento delle frontiere semi-aperte, mentre paradossalmente diverse Regioni del Sud della Penisola chiedono che agli stessi cittadini italiani provenienti da Nord venga imposta all’arrivo l’isolamento in quarantena?

Nulla è certo. Tutto è in movimento, nella lotta a un nemico inafferrabile ma velocissimo nella sua corsa, e mutante. In movimento nella direzione più tranquillizzante, si spera. Senza isterismi, mentre la preoccupazione questa sì è sacrosanta, e può addirittura aiutarci a comportamenti adeguati. Auspicando che oltreconfine la comunicazione migliori (basti pensare alla confusione creata dalle anticipazioni sull’ultimo decreto) e non sia sempre inquinata da battibecchi politico-elettoralistici. Dove si afferma tutto e il contrario di tutto. Dove i sovranisti spaesati un giorno chiedono la chiusura, e un altro giorno il “liberi tutti;” un giorno rimproverano l’allarmismo provocato dal governo e qualche ora dopo si mettono la mascherina in diretta tv; un giorno vogliono i muri e il giorno dopo reclamano l’impegno di un’Europa certo all’ultima prova, ma comunque da loro sempre vilipesa e soprattutto negata. Come se davvero non sapessero, come è stato detto, che comunque “a Como ci si ammala come a Lugano”.

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