L'analisi

Disobbedienza per il clima

Che la comunità internazionale non sia assolutamente in grado di rispondere all’urgenza climatica appare ormai una triste evidenza

17 febbraio 2020
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Che la comunità internazionale non sia assolutamente in grado di rispondere all’urgenza climatica appare ormai una triste evidenza. Dalla conferenza di Rio del 1992 agli accordi di Kyoto entrati in vigore nel 2005, ignorati da colossi quali gli Stati Uniti, la Cina o l’India, fino alle diverse Cop (siamo alla 25ª, quella improvvisata e sotto tono svoltasi a Madrid) il percorso della consapevolezza sull’urgenza planetaria appare imbottita di retorica, di promesse disattese, di proclami non seguiti dai fatti.

Di fronte all’allarme assoluto lanciato dall’organismo di riferimento, l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) si registra qui e là qualche piccolo timido passo.
Non ci si può ovviamente aspettare nulla da un presidente americano nazionalsvalvolato che nega l’esistenza stessa del problema, ma seppur con qualche rara eccezione, anche le diverse democrazie più illuminate forniscono risposte inadeguate. La foto ricordo di giovedì scorso che immortala il presidente Macron davanti al panorama del ghiacciaio del Monte Bianco ridotto ormai a una mesta pietraia, è da leggere più in chiave propagandistica che programmatica.

Non vi è nulla di più liberatorio dell’ ammettere le proprie colpe, fare ammenda, per poi ricominciare da capo. La questione riguarda tutti, non solo i politici, beninteso: a cominciare da chi chiude il rubinetto quando si lava i denti per poi portare i bimbi a scuola con il Suv.

Crescono il senso di impotenza e la frustrazione. Da Lugano, dove sabato scorso lo “Sciopero per il clima” ha rilanciato la riflessione sul tema della compatibilità della lotta ambientale e della crescita economica, a Chambery dove un centinaio di militanti di Extinction Rebellion si sono incatenati per bloccare l’aeroporto, la sensibilizzazione è ormai quotidiana. Nel Canton Vaud una diciannovenne ambientalista del tutto sconosciuta ha sfiorato la grande impresa: ha raccolto il 23% dei consensi e per poco non ce l’ha fatta a entrare in Consiglio di Stato.

La questione dei tempi di reazione e di azione della politica è ormai in sottotraccia ovunque: a chi afferma che con la moderazione e il tempo necessario, senza isterie, si potranno affrontare e risolvere le questioni ambientali, Greta Thunberg e i vari moventi ci ricordano, parafrasando quando diceva Keynes sui poteri taumaturgici del libero mercato, che a medio termine rischiamo di essere tutti morti.

L’interrogativo di leniniana memoria è quello a cui sono chiamati a fornire una risposta quanti ritengono che pure le democrazie non offrono garanzie. Lottare con le armi istituzionali o avviare modalità alternative?

Il quotidiano romando ‘Le Temps’ l’ha girata in questo modo: “Il riscaldamento climatico è solubile nella democrazia?”. C’è chi ne dubita, ricordando anche quanto fu rapida la risposta del mondo politico per salvare l’Ubs dal baratro, quanto invece ha ere geologiche la lotta parlamentare contro i gas a effetto serra.

I segnali sembrano indicare all’orizzonte ipotesi di disobbedienza civile come quelle che nella storia hanno già contrassegnato la lotta per l’emancipazione delle donne (il movimento delle suffragette), dei colonizzati (Gandhi) o dei neri (Martin Luther King). Non vi è infine da dimenticare che in assenza di risposte convincenti da parte delle istituzioni nazionali e internazionali, il movimento per il clima rischia anche di radicalizzarsi con tutte le derive immaginabili.

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