L'analisi

Una Brexit dalla Storia

1 febbraio 2020
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Tutto, ma non rimpianti o recriminazioni. Ora che è cosa fatta, della Brexit si può tentare di ragionare in una prospettiva storica, lasciando per un momento in secondo piano la sua natura politica e l’urgenza di provvedere alla sua messa in opera.

Se c’è infatti una lezione da trarre dagli eventi che hanno segnato gli anni tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, e che la Brexit conferma, è che il treno della Storia non si muove su un binario rettilineo, e soprattutto non in una sola direzione.

Non è la prima volta, certo, ma tale è per il mondo di oggi, figlio ormai incanutito delle aspettative nate nel dopoguerra, che, nella visione di chi le concepì, avrebbero preso forma di comunità di nazioni, garanti di benessere e libertà universali. Visioni speculari a quelle del mondo socialista che, seppure in postura conflittuale, condivideva la fiducia nella percorso rettilineo della Storia; completate dallo slancio straordinario delle decolonizzazioni.

Ecco, seppure non abbia la portata strategica della fine del Patto di Varsavia, la Brexit ne ha una simbolica molto maggiore: lo strappo si è prodotto tra le “democrazie occidentali”, il cui modello, esaurito l’esperimento socialista, era parso per qualche tempo “vincente” ed estendibile al mondo intero.

Che questo avvenga mentre si afferma ai quattro angoli del pianeta un modello autoritario – dalla Russia alla Cina, dal Brasile all’India alla Turchia – può essere ritenuto un caso solo se si evita di considerare l’ispirazione politica (ma una volta si sarebbe detto, più correttamente, ideologica) di chi ha promosso la Brexit e di chi l’ha osannata professandosi amico e alleato. L’intima ispirazione dei nazionalismi di cui la Brexit è espressione è la stessa indole autoritaria che i regimi citati sopra manifestano senza remore. Con essi, i promotori del distacco del Regno Unito dall’Unione europea condividono anche la, strumentale, mitizzazione di un passato le cui glorie chiedono di essere riscattate (non solo in forma di putiniane nostalgie zariste, ma anche con quell’again riferito a una grandezza degli Stati Uniti che Trump millanta di poter riaffermare). In senso stretto, una idealizzazione reazionaria, di cui si alimentano, e che a loro volta spacciano, le nuove destre arrembanti, che hanno posto nel collimatore gli ingessati rituali delle democrazie liberali, a cui devono tuttavia la prossimità o l’accesso al potere tanto ambito.

Si può perciò dire che il danno prodotto dalla Brexit – se tale lo si vuol considerare – non è di mera natura economica o, ancor più grave, sociale. Il danno prodotto a un percorso storico è ben più profondo, definitivo (con tutto che di definitivo non c’è nulla, ma è per capirci). Ed è per questo che per non subirne oltremodo le conseguenze e per sfuggire all’ormai inconcludente dialettica colpa loro-colpa nostra è importante interpretarlo come un segnale d’allerta, un indizio di dove va la Storia: ciò che si produce oggi potrà ripetersi e più d’una volta. Se le condizioni si pongono. E questo compete alla politica ed è, sì, affare dell’oggi.

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