L'analisi

La Libia a cose fatte

15 gennaio 2020
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Buon’ultima, l’Europa sembra avere ripreso l’iniziativa sulla Libia. Si scrive Europa, ma si dovrebbe leggere Germania. La convocazione della Conferenza di Berlino, il prossimo 19 gennaio (ammesso poi che si tenga), si deve infatti più ad Angela Merkel che al resto della compagnia. Non che non vi siano stati movimenti, ma quelli di cui si ha conoscenza sono desolanti: con Francia e Italia (questa affetta oltretutto da un deficit politico grottesco) impegnate più a ostacolarsi a vicenda – Parigi “con” Haftar, Roma “con” al-Serraj – facendo a gara nell’organizzare “vertici” buoni tutt’al più per i fotografi.

Anche questa mancanza di visione e di autorevolezza di due capitali che per ragioni storiche e strategiche avrebbero dovuto mostrarsi all’altezza (fu la Francia di Sarkozy a forzare la caduta di Gheddafi, mentre i legami, e i debiti, tra Roma e Tripoli sono Storia), associata al disimpegno non meno confuso degli Stati Uniti dall’area, ha generato quel vuoto presto occupato dalle smanie di Recep Tayyip Erdogan e di Vladimir Putin.

Un’occupazione di spazi che non va necessariamente intesa come definitiva superiorità. È vero cioè che le mosse di Turchia e Russia dicono di un “espansionismo diplomatico” che vorrebbe fare da apripista a uno di natura geostrategica maggiore, ma devono anche essere intese per ciò che pure sono: un bluff per “vedere” le carte altrui. Lo conferma, almeno in parte, il fatto che Ankara e Mosca sono presenti sulle linee di fuoco, ove lo sono, soprattutto con milizie fidate – i tagliagole siriani per Erdogan e i mercenari della compagnia Wagner per Putin – e non con i propri eserciti, per evitare collisioni che sarebbero poi difficili da sanare. Difficili, ma non impossibili: si pensi a quanto agevolmente i due presidenti hanno “dimenticato” l’abbattimento del jet russo sui cieli siriani da parte turca, nel 2015.

Né va trascurata la motivazione domestica dell’attivismo delle due capitali. I segnali di rallentamento dell’economia e il recente smacco elettorale subito da Erdogan a Istanbul, da un lato, e la drammatica stagnazione socioeconomica in Russa, dall’altro, hanno certamente suggerito agli apparati delle reciproche propagande, forti dei “successi” in Siria, di “investire” in un tema di sicuro effetto quale l’affermazione diplomatico-militare in uno scenario nel quale gli “altri” (l’Europa in primis) hanno fallito. Con tutto che, accanto alla rispolverata ambizione neo-ottomana di dominazione sul Mediterraneo centrorientale, a muovere Erdogan c’è anche il più pragmatico scopo di accedere e controllare le riserve di idrocarburi del deserto e del mare libici.

E men che mai si possono ignorare le “variabili” locali. Quelle milizie, tribù, potentati, impiegati sì a farsi guerra per conto terzi (l’elenco dei mandanti arriva sino al Golfo), ma soprattutto per spartirsi potere e ricchezze di un Paese che fu il più ricco dell’area e forse dell’intera Africa. Le intemperanze di Haftar ne sono l’espressione più vistosa e mostrano la precarietà dell’impianto su cui Putin ed Erdogan si autocelebrano. Basterebbe inoltre osservare gli spregiudicati cambi di alleanze delle bande islamiste in loco (filiali di al-Qaida e dell’Isis, con cui tuttavia la diplomazia sotterranea occidentale viene a patti) per rendersi conto di quanto sia illusorio confidare nelle virtù salvifiche di una conferenza. A meno di considerarla una cerimonia di conferma di una realtà consolidata sul terreno. In questo caso, la crisi libica potrebbe davvero entrare in una nuova fase. Benché non risolutiva, né definitiva.

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