L'analisi

Le incognite di un trionfo

Fu di Dean Acheson, ex segretario di Stato americano, la più tagliente definizione del declino del Regno Unito dopo la Seconda guerra mondiale

16 dicembre 2019
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Fu di Dean Acheson, ex segretario di Stato americano, la più tagliente definizione del declino del Regno Unito dopo la Seconda guerra mondiale e l’abbandono delle colonie: esclamò infatti nel 1962: “Il Regno Unito ha perso un impero e non ha ancora trovato un ruolo”. Con il trionfo elettorale del conservatore Boris Johnson, esattamente questo ruolo Londra ha promesso (o vaneggia) di poter ritrovare, un nuovo posto nella Storia, attraverso la Brexit. Divorziando dall’Unione europea dopo oltre quarant’anni di adesione poco partecipativa e anzi perniciosa anche per avervi inoculato soprattutto ricette liberiste; e ora convinta, secondo l’enfatica e nostalgica retorica dei Brexiteer, di poter nuovamente salpare e ripercorrere in piena libertà i mari del primato economico a livello mondiale. I suoi teorici l’hanno anche definita ‘Global Britain’. O, ancora, la teoria dei ‘Five Eyes’.

Cioè un compatto agglomerato commerciale e geo-strategico che saldi gli interessi di Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda e dello stesso Regno Unito (i pivot del mondo anglofono) per farne una nuova e invincibile flotta nei tempestosi mari della globalizzazione. Scenario possibile? Oppure, come sibilò Michael Heseltine, vice di un altro premier conservatore, John Major, la Brexit altro non è che “il peggior atto di autolesionismo in tempo di pace dell’intera storia britannica”? Sfida per ora del tutto teorica, orizzonte unicamente invocato. Un risultato anche solo parzialissimo di questa ‘Gran Gran Bretagna’ dipenderà dalla rapace benevolenza dell’imprevedibile Donald Trump, che l’esito elettorale di giovedì l’ha predicato con la consueta foga, promettendo uno strapuntino al socio inglese.

Si vedrà. Nell’immediato, i problemi per le esultanti élite raccolte attorno a “BoJo” (quasi tutta gente uscita dai più blasonati college privati inglesi) sono assai più immediati, pratici, e di grande incertezza. Ancora devono essere negoziati: il contratto di divorzio dall’Ue (e probabilmente non basterà un solo anno di trattativa con Bruxelles); i futuri rapporti commerciali con gli ex partner europei, con Merkel e Macron che subito hanno definito Londra “una concorrente” a cui non concedere troppi sconti; il funzionamento del confine irlandese, che in base a quanto finora fissato dovrebbe rimanere ‘aperto’ secondo una formula che ha quasi del rompicapo; i miliardi (tanti) che Londra dovrà mettere sul tavolo di Bruxelles per rispettare regole e prezzo della separazione. Il tutto muovendosi senza anticipare mosse che potrebbero invece provocare una hard Brexit, ad esempio la trasformazione del Regno Unito in un grande e agguerrito paradiso fiscale alla porta settentrionale dell’Unione.

Poi sul piano interno: Boris Johnson ha sì vinto anche nei baluardi ‘rossi’ del Nord puntando su un nazionalismo senza ritegno (avendo di fronte un bersaglio perfetto, il laburista Jeremy Corbyn, col suo programma da ‘paese della cuccagna’: circa cento miliardi di spesa pubblica immediata, a cui nemmeno gli elettori socialisti erano pronti a credere), ma il premier Tory non avrà molto tempo per dimostrare di voler fare uscire il Regno dalla sua condizione di paese meno egualitario fra quelli europei.

Ma, soprattutto, ha due spine minacciose anche per un trionfatore: due tasselli del mosaico britannico (eredità del più puro colonialismo inglese, e non per nulla profondamente europeisti) che potrebbero tentare di staccarsi dal Regno, quello nord-irlandese e soprattutto quello scozzese, dove l’ottimo risultato elettorale dei nazionalisti ha rilanciato l’ansia indipendentista. Poi magari, chissà, la... chimera del “Global Britain”.

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