L'analisi

Voto al buio sulla Brexit

Chiunque vinca, domani, tra Boris John­son e Jeremy Corbyn, le cose non andranno come l’uno e l’altro hanno promesso

11 dicembre 2019
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Chiunque vinca, domani, tra Boris John­son e Jeremy Corbyn, le cose non andranno come l’uno e l’altro hanno promesso. Ben difficilmente, infatti, le terze elezioni legislative in cinque anni riusciranno a sollevare il Regno Unito dalle sabbie mobili in cui è finito con il referendum del 2016, che impose la Brexit sull’orizzonte storico del Paese. Per diverse ragioni, che possono essere sintetizzate in due motivi essenziali: la riduzione del confronto politico al tema dell’uscita dall’Unione europea; e le personalità (e di conseguenza le politiche) dei due principali avversari nella consultazione.
La leggerezza e l’irresponsabilità con cui il primo ministro conservatore David Cameron convocò il referendum del 2016, su un tema che solo i nazionalisti più accesi e cinici potevano considerare prioritario, ha prodotto effetti politici a cascata – mentre di quelli economici e sociali si riconoscono già le avvisaglie – coronati dall’avvento di Boris Johnson alla guida del governo.

Questo non va dimenticato: a condurre il Paese in un labirinto dal quale non sa davvero come uscire è stata la presunzione Tory di poter governare e di sfruttare a proprio vantaggio il fermento di stampa e di capipopolo esaltati dalle nostalgie imperiali e dai sogni di gloria di una insularità decadente.
Da allora, è vero, i conservatori sono riusciti a mantenersi al governo; sacrificandovi tuttavia due primi ministri (benché di scarso valore), perdendo una maggioranza sicura ai Comuni, e affidandosi a una figura grottesca, John­son appunto, eccellente nel mentire ben più che nell’arte di governare. Lo prova la faccia tosta con cui ha spacciato per un “successo” la firma di un testo per la Brexit concordato con l’Unione europea, solo in parte diverso da quello negoziato dalla sventurata Theresa May (che lui stesso aveva considerato una capitolazione) e che in ogni caso lascia inalterato – “a favore” dell’Ue – il rapporto tra Londra e Bruxelles. Non pago, Johnson ha promesso che se gli elettori gli accorderanno fiducia, in un anno la Brexit sarà cosa fatta. Ciò a cui lui stesso non crede.

Il suo avversario sconta invece l’opacità della propria posizione sull’argomento. Lo sforzo di Jeremy Corbyn di ricondurre il confronto alle questioni sociali risulta vanificato soprattutto dalla pretesa di tenersi fuori da quello sulla Brexit.

Il leader del Labour non può “affidarsi alla volontà degli iscritti” su questo tema, o evocare un nuovo referendum nel quale non darebbe comunque indicazioni di voto. Pilato non era laburista. Corbyn ha pur prodotto un programma di politiche sociali ed economiche forse “ottimista”, ma che solo l’ideologia dominante può definire “radicale” (lo si confronti con i programmi dei prudentissimi governi di centro-sinistra europei di quaranta, cinquant’anni fa); ma la pretesa di bypassare una questione storica da cui pure quelle promesse dipendono ne svela l’inadeguatezza. Ben più degli attacchi sguaiati della destra e le accuse strumentali di antisemitismo.

Stando agli umori degli elettori, rilevati nelle settimane prima del voto, Johnson potrebbe in effetti uscire vincitore dalle urne. In che misura e con quali chance di durata non è invece certo. Molti analisti stimano piuttosto che anche questa volta ne uscirà una maggioranza azzoppata.

I problemi che ne deriveranno non saranno più soltanto “loro”, ma, inevitabilmente, europei, gli altri firmatari del “contratto”. Se dunque occorreva una dimostrazione che nessuno vota ormai più soltanto per sé, questa è la più evidente.

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