L'analisi

Veleni e caos nell'America di Trump

Si va a grandi passi verso l'impeachment. La rabbia del presidente. Tutti gli ingredienti di un cocktail ormai potenzialmente esplosivo

(Keystone)
30 settembre 2019
|

La talpa ha parlato, l’impeachment è scattato, l’inchiesta partita dalla già celebre telefonata con il presidente ucraino Zelensky si allarga al ministro della Giustizia Barr e a quello degli esteri Pompeo. Nuovi dossier si aggiungono all’incarto con il quale Nancy Pelosi, speaker democratica alla Camera, spera di poter attrezzare il patibolo politico di Donald Trump. Il presidente che ha già inanellato 12mila bugie (record assoluto secondo factcheck.org) e che già per questo anche solo il buonsenso indicherebbe come inadeguato alla carica (“unfit for the office”) si schermisce e reagisce rabbiosamente come una fiera in gabbia, come sempre è abituato a fare: denuncia un complotto ordito dai “do nothing Democrat savages” contro di lui, presidente “perfect”.

I principali ingredienti, ma il cocktail ne contempla molti altri, sono noti: Trump chiede al suo omologo di riaprire l’inchiesta sull’azienda del gas dove operava Hunter Biden, figlio del suo (al momento) principale antagonista politico in chiave elezioni 2020. Prima della chiamata blocca un credito di 400 milioni di dollari a Kiev. Il ricatto non è esplicito, ma in sottotraccia. In precedenza Rudolph Giuliani, avvocato privato di Trump, aveva incontrato sotto copertura del Dipartimento di Stato cinque procuratori ucraini.

Nella girandola dei “bad guys”, i personaggi sciagurati che girano nell’orbita della Casa Bianca, la prima testa a saltare è quella di Kurt Volker, inviato speciale Usa in Ucraina. Alcuni mesi fa Trump aveva silurato l’ambasciatrice in Ucraina: Marie Yovanovitch, a cui il presidente nella chiamata del 25 luglio a Kiev si riferisce come “the woman was bad news”.

L’impeachment fu pensato dai padri fondatori del Paese nel 1787 per evitare gli abusi di potere da parte dell’esecutivo e scongiurare il pericolo di un ritorno alla tirannia. Un argine considerato necessario anche se il pericolo non era imminente: nella mente dei 55 delegati che si riunirono a Filadelfia era già ben presente il nome del futuro presidente, personaggio probo, al di sopra di ogni sospetto. Ma 230 anni più tardi, l’America si ritrova con un personaggio per cultura, rettitudine, stile agli antipodi del grande George Washington. Lo strumento dell’impeachment non è mai sfociato in un voto favorevole alla destituzione di un presidente. Richard Nixon travolto dal Watergate gettò la spugna prima del voto. Bill Clinton fu “impeached” ma non destituito, così come oltre un secolo prima di lui Andrew Johnson. Ed è poco probabile, come hanno già scritto in molti, che la procedura sfoci nelle dimissioni del 45esimo presidente. Anche se uno dei più noti padri fondatori, Alexander Hamilton, considerava che l’ingerenza straniera e il tradimento della patria, i reati di cui secondo i Democratici si sarebbe macchiato Trump, costituivano il più grave dei reati. Il Senato è saldamente nelle mani del Partito Repubblicano: lì Trump, come scrive il ‘Washington Post’, più che popolare è temuto. Pochi osano contestarne la legittimità. Salvo l’ex candidato alla presidenza Mitt Romney, nessuno al momento ha preso le distanze dal presidente.

Il confronto si fa incandescente. La partita è a rischio anche per i Democratici (l’immagine di Biden rischia comunque di subire i contraccolpi della vicenda, benché le accuse di corruzione e di pressioni politiche a favore del figlio non siano mai state provate). Come nel caso del ‘Russiagate’, Trump sa anche muoversi con una certa abilità sulla frontiera tra legalità e illegalità. La stagione del caos e dei veleni dura da ormai tre anni, ora è entrata in una fase semplicemente esplosiva.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE