L'analisi

Un giudice al di sotto delle parti?

La sentenza del Tf sull’Ubs fa infuriare l’Udc. Ma l’indipendenza della giustizia, con tutte le sue imperfezioni, è il cuore stesso delle nostre democrazie.

(Keystone)
5 agosto 2019
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Una sentenza per molti indigesta dal sapore del tradimento patrio, e una polemica prevedibile ma dai contorni inquietanti. La decisione della seconda corte di diritto pubblico del Tribunale federale che costringe l’Ubs a consegnare alle autorità fiscali di Parigi i dati personali di 40mila francesi, titolari di conti bancari, ha fatto urlare allo scandalo più di un politico. Roger Köppel, consigliere nazionale Udc nonché caporedattore della ‘Weltwoche’, spara ad alzo zero e denuncia una sentenza “vergognosa” lanciando anche qualche staffilata nel proprio campo, contro l’operato del presidente Ueli Maurer (al quale è subordinata l’Amministrazione federale delle contribuzioni).

Senza porre tempo di mezzo dal coro degli indignati è stata sferrata l’inevitabile offensiva per snidare i traditori. Anzi: il traditore. A dar manforte ai due giudici di centro sinistra (verde e verde-liberale) si era in effetti aggiunto un terzo giudice. Risultato 3 a 2 a favore della Francia. L’ago della bilancia o, secondo i suoi detrattori, l’autore dell’autogol politico è stato Yves Donzallaz, Udc. Quanto basta per attribuirgli le sembianze di un torvo apostata. Proprio lui che era stato definito in precedenza dai suoi sponsor “un magistrato eccezionale e impeccabile”. Dalla denuncia alla minaccia: le voci contrarie alla sua rielezione si sono moltiplicate e l’interrogativo (“può un magistrato eletto da un partito esprimersi contro i valori dello stesso partito?”) posto dal capogruppo Udc Thomas Aeschi è puramente retorico. L’Associazione svizzera dei magistrati (Asm) comunque non ci sta: “Le minacce sono inaccettabili, minano la separazione dei poteri, fondamento della democrazia”. Significativo e rassicurante il fatto che a stigmatizzare le pressioni politiche sia stato Thomas Stadelmann, giudice in area Ppd che nella controversa sentenza è stato messo in minoranza proprio dal voto di Donzallaz.

In un’epoca in cui (vedi la nostra precedente ‘Analisi’ su ‘laRegione’) molti leader politici, dal presidente russo Putin al premier ungherese Orbán, celebrano la fine della “società liberale” (traduzione: della democrazia) e in cui l’attività prediletta da altri, da Trump a Salvini, è il tiro al bersaglio contro i giudici non compiacenti, la diatriba sul ruolo del Tribunale federale è certamente in sintonia con l’air du temps. Si può risalire alla ‘Repubblica’ di Platone per trovare le prime formulazioni del principio dell’indipendenza dei giudici dal potere politico, ma è naturalmente in epoca moderna con John Locke nel ’600 e la rivoluzione illuminista che si gettarono le basi dello Stato di diritto. Montesquieu, padre dell’articolazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), nel suo ‘Lo spirito delle leggi’ spiegava che chiunque abbia potere è portato ad abusarne. Da qui la necessità di proteggere la giustizia dalla politica.

Commentando la polemica, il ‘Tages-Anzeiger’ sottolinea che comunque il voto di un magistrato è un atto politico e che il pericolo di commistione di interessi è insito nelle stesse modalità di nomina. Che fare allora? Soluzioni istituzionali perfette non esistono. Gli Usa nominano i giudici della Corte Suprema a vita, evitando così la trappola-ricatto delle rielezioni. Una buona idea che però in America è malfunzionante. Nella culla della democrazia, la Atene di Pericle, parte dei magistrati veniva estratta a sorte. C’è chi ritiene che sia questa la panacea. Di certo è che l’indipendenza della giustizia, con tutte le sue imperfezioni, è il cuore stesso delle nostre fragili democrazie. Attaccarla oggi significa minare le basi stesse dello Stato di diritto.

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