L'analisi

'Sono di colore, sono bianco'

Il deputato repubblicano Mike Kelly difende le sue colleghe democratiche di origine straniera attaccate da Donald Trump con epiteti razzisti

Una copertina emblematica del settimanale tedesco Stern di un paio di anni fa (Keystone)
29 luglio 2019
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“Sono una persona di colore. Sono bianco”. Parole sagge pronunciate negli Stati Uniti. Da un deputato della Pennsylvania. Non del partito democratico. Ma di quello repubblicano, il partito del presidente Trump. Che poco prima, il 14 luglio, aveva attaccato quattro neodeputate (una afroamericana, due nate negli Stati Uniti da genitori immigrati e una arrivata all’età di sei anni dalla Somalia) intimando loro “tornate da dove siete venute”.

Quel deputato repubblicano si chiama Mike Kelly. Uno dei pochissimi, nel suo schieramento, ad aver criticato, con il pregio dell’ironia, l’incredibile e vergognosa affermazione di colui che dovrebbe essere il primo difensore della Costituzione. Ma non basta. Durante un successivo comizio di fronte a ottomila sostenitori, il capo della Casa Bianca ha lasciato, senza interromperli e men che meno prenderne le distanze, che i suoi fan si sfogassero urlando “send her back”, che si preannuncia come uno dei principali slogan della campagna elettorale per le elezioni presidenziali del prossimo anno.

Una gaffe, quella del tycoon? Assolutamente no. Indifferente alle critiche interne e internazionali (prima fra tutte Angela Merkel), e per nulla disturbato dal rilanciato dibattito sugli istinti razzisti del presidente, Donald Trump ha sicuramente scelto con cura quelle parole e il relativo bersaglio. E lo ha fatto, ancora una volta, per vellicare gli istinti del suprematismo bianco. O comunque allo scopo di non sedare le inquietudini di molta parte della società “wasp” (di origine anglosassone e di religione e cultura protestante). Cioè “quell’angoscia identitaria – ha di nuovo ricordato ‘Le Monde’ – che suscita l’attuale progressione delle minoranze, neri, latini, musulmani, asiatici; l’angoscia di diventare un giorno una delle minoranze del mosaico americano”. L’immigrazione – anche quella legale, anche quella antica, anche quella che ha contribuito a “fare l’America” – rimane dunque il mantra del presidente. Ma non è l’unico calcolo del titolare della Casa Bianca.

Le quattro ‘congresswomen’ (Ilhan Omar, Alexandria Ocasio-Cortez, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley) fanno parte della componente più radicale del partito democratico. E la “minaccia marxista” sull’America è il nuovo fantasma politico agitato da Trump, in un paese in cui comunque il progressismo di stampo socialista fa meno paura di un tempo (come ha dimostrato Bernie Sanders).
Le mosse del presidente mettono in luce anche il travaglio del partito democratico nella scelta dell’anti-Trump. Un partito che si è ripreso solo in parte (vincendo a metà le mid term elections) dalla sconfitta di tre anni fa. Lo conferma l’affollamento di candidature, ben 24, scese in campo per la riconquista della Casa Bianca. Una pletora di ambizioni, e soprattutto di profili diversi, anche contrastanti: dai centristi come l’ex vicepresidente Joe Biden, ai progressisti tipo Bill de Blasio sindaco di New York, ai molti giovani più radicali e molto vicini alle istanze di Sanders. Si diceva un tempo che, anche negli Stati Uniti, le elezioni si vincono al centro. Uno schema che proprio Trump ha mandato in frantumi. Un dilemma in più per i suoi avversari.

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