L'analisi

Chi vuole la guerra nel Golfo

Gli Usa, i suoi alleati, e il tentativo di forzare le tensioni esistenti con l'Iran

14 giugno 2019
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Converrà ricordarsi del fotogramma diffuso dal Dipartimento di stato statunitense, che mostra una supposta unità navale iraniana avvicinarsi a una delle petroliere colpite giovedì nel Golfo di Oman, “per rimuovere una mina inesplosa”. Prova evidente della matrice iraniana dell’attacco. 

Converrà ricordarsene, riandando con la memoria alla provetta esibita da Colin Powell nel corso di una seduta del Consiglio di Sicurezza quale prova dell’esistenza di un arsenale iracheno di armi di distruzione di massa. Era il 2003, e quella di Powell una disgraziata bugia.

Della guerra che seguì, mezzo mondo paga ancora oggi le conseguenze.

Poi le cose non sono mai le stesse. E se pure quella messa in scena dall’amministrazione Trump fosse una montatura, non è detto che ne deriveranno eventi altrettanto catastrofici. Ma vi sono tutti gli elementi per doverlo temere. Non sfugge a nessuno che i due “incidenti” avvenuti nelle acque del Golfo nello spazio di un mese siano da interpretare come il tentativo di forzare le tensioni già esistenti tra Stati Uniti (e i loro alleati regionali) e Iran fino alla soglia dello scontro armato. 

Le (non)relazioni tra i due Paesi sono precipitate da quando Donald Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, disattendendo gli impegni assunti dal suo precedessore, imponendo nuove sanzioni all’Iran ed estendendone l’obbligo – con un chiaro intento ricattatorio – ai Paesi terzi che con Teheran intendono continuare a negoziare e commerciare. 

Una decisione cinica, espressamente mirata a colpire il livello di vita degli iraniani (già disillusi per i mancati benefici attesi da un clima di almeno relativa distensione); e sventata, intesa com’è a forzare un cambio di regime più che a impedire lo sviluppo di eventuali programmi di armamento nucleare della Repubblica islamica. Esemplare dimostrazione di ignoranza politica (altro che “abilissimo negoziatore”) sorretta dal revanscismo ideologico di “consiglieri” ereditati dalla cricca neocon già all’opera con Bush jr.

Specularmente, in un Iran in gravissime difficoltà economiche (non ultimo per le risorse investite nel soccorso prestato a Bashar al Assad in Siria), il regime teocratico sta già impiegando l’arsenale di repressione e propaganda (anti-israeliana soprattutto) per sedare i fermenti di una opinione pubblica sempre più insofferente. Il suo braccio armato più ideologizzato e formato per azioni di “guerra asimmetrica” al di fuori dei confini nazionali, i Pasdaran, risponde direttamente alla Guida Suprema, ricevendone di solito ampia autonomia nella scelta degli obiettivi. 
Secondo alcune interpretazioni, un Iran messo alle strette da sanzioni e isolamento diplomatico potrebbe così ricorrere ad operazioni di guerra puntiforme e, appunto “asimmetrica” come sono gli attacchi alle petroliere. Del resto, ancora in febbraio, Ali Shamkhani, segretario del Consiglio nazionale di sicurezza, aveva avvertito che se le esportazioni di idrocarburi iraniani fossero davvero state minacciate, Teheran avrebbe potuto arrivare alla chiusura dello Stretto di Hormuz. Ciò che non avvenne neppure nei momenti più gravi della guerra iraniano-irachena degli anni Ottanta. Va da sé che Teheran ha respinto tutte le accuse (principalmente statunitensi e saudite) basate su questo scenario, ma si sa che in simili circostanze accuse e smentite valgono poco più di niente.
Una domanda dunque è: se davvero l’Iran vuole una guerra, bisogna proprio concedergliela? L’altra: se a volere la guerra sono gli Stati Uniti, bisogna per forza credere all’impianto scenico messo in opera per giustificarne l’inevitabilità?

La maggior parte degli analisti dubita che Washington e Teheran vogliano davvero andare sino in fondo. Ma è stranoto che di “incidente” in “incidente” si avverano guerre considerate niente più di ipotesi remote. L’importante è avere ben presente che un conflitto, quale che ne sia l’estensione, coinvolgerebbe direttamente attori regionali impazienti di regolare alcuni conti: Israele in ormai perenne campagna elettorale, per di più dotato dell’atomica; una Turchia al cui timone sta un capitano accecato dalla hybris islamo-nazionalista; e un’Arabia Saudita armata sino ai denti da Washington e sponsor principale del jihadismo internazionale. Ma non solo loro: a essere indirettamente coinvolta sarebbe buona parte del resto del mondo, un conflitto avendo come vitale teatro di battaglia lo stretto di Hormuz, attraverso il quale passano gli idrocarburi necessari alla stragrande maggioranza delle economie del pianeta. Con il paradosso che uno dei due principali contendenti, gli Stati Uniti, avendo di fatto raggiunto l’autosufficienza energetica sarebbero i meno colpiti da un eventuale blocco del canale. Il conto per l’ennesima “esportazione di democrazia” lo pagheremmo tutti.

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