L'analisi

May sacrificata alla Brexit

La breve stagione di Theresa May si è conclusa nel pieno di una lunga stagione di caos e discredito della politica britannica

25 maggio 2019
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La breve stagione di Theresa May si è conclusa nel pieno di una lunga stagione di caos e discredito della politica britannica. Sintomo e prodotto della crisi del progetto europeo, il verminaio nato dal referendum sulla Brexit esprime peculiarità che ne fanno un caso di scuola.

Cominceremo col dire che May sconta colpe proprie ma soprattutto altrui, pagando avventurismo, cinismo e inadeguatezza di un intero ceto politico. La sventatezza di David Cameron è nella memoria di tutti. Convinto di poter manipolare a proprio vantaggio un malcontento informe e le grottesche nostalgie di grandezza organizzate dai nazionalisti in ostilità nei confronti dell’Unione europea, l’allora primo ministro convocò il referendum che ne segnò la fine politica. E se May ha lasciato in lacrime, lui si tolse di torno canticchiando.

Ma il cinismo di Cameron impallidisce a paragone di quello dei capifila della hard Brexit. Da Nigel Farage a Boris Johnson, per citare i più noti. La determinazione con cui hanno precipitato il Paese al rango di ospite indesiderato è stata pari all’assoluta mancanza di consapevolezza di che cosa significhi oggi essere “padroni a casa propria”, e di un progetto politico che su tale pretesa si fondi.

Tutto ciò aggravato dall’assenza di politici all’altezza della situazione. Vale per May, blandamente (molto blandamente) contraria alla Brexit nel 2016 e poi volonterosa artefice della propria caduta. Negoziazione su negoziazione con interlocutori europei interessati più a fare della Brexit un deterrente nei confronti di eventuali emuli, che a salvarle la faccia, May ha conosciuto l’umiliante condizione di firmare un accordo e ripresentarsi per ben due volte alla controparte pretendendone la modifica, con alle spalle una pistola puntata. Né le hanno giovato i (pen)ultimatum intimati dagli stessi negoziatori europei sul cui collo soffiavano sì i governi, ma anche la crescente ondata nazionalista che di loro stessi vorrebbe liberarsi.

Non meno inadeguato è risultato Jeremy Corbyn. Ideologicamente opposto a una Unione intesa come espressione massima del neoliberismo, il capo del Labour si è improvvisato stratega di un disegno che non gli appartiene. Tra le briglie del mostro burocratico di Bruxelles e il wild capitalism nemico dell’Ue ha cercato di indicare una “terza via”, scoprendo che non conduceva da nessuna parte.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e Donald Trump (con Putin fervente sostenitore del disfacimento dell’Ue) non mancherà di sottolinearlo quando, di qui a poco, verrà accolto in visita di Stato a Londra. Vi sono molte lezioni da trarre. Proviamo a indicarne due di significato ben più esteso di un’isola il cui establishment ancora si sente impero. La prima è il fallimento del tentativo delle destre “moderate” di padroneggiare e contenere gli estremismi di propria filiazione o potenzialmente concorrenti. Una tentazione a cui cedono volentieri da un capo all’altro del continente, e che ha precedenti storici non esattamente incoraggianti.

La seconda riguarda natura e “qualità” dei nazionalismi arrembanti in Europa. La vulgata secondo cui si tratta di una reazione alla globalizzazione, al distacco delle élite dalla “gente”, alla perdita di identità individuali e collettive, all’impoverimento di interi ceti sociali, seppure non infondata comincia a essere stucchevole. Sarà semmai ora di occuparsi dei loro contenuti, del profilo violentemente involuto del loro discorso, e della pochezza dei suoi campioni. E opporvisi. Perché oggi l’alternativa a una pessima Ue non è un insieme “libero” di popoli sovrani, ma sono i Farage e via salvinando. May, illusa, credeva di esserlo lei.

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