L'analisi

L'alternativa europea

La possibile avanzata dell’estrema destra nazionalista è il tema più discusso e l’esito più inquietante

17 maggio 2019
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È giusto pensare alle imminenti elezioni europee come a quelle della grande crisi. Meno facile immaginare quale scenario potranno produrre, non solo in termini di distribuzione delle forze in seno all’europarlamento, ma soprattutto in relazione alla realtà di cui sono (dovrebbero essere) espressione.

La possibile avanzata dell’estrema destra nazionalista è il tema più discusso e l’esito più inquietante; ma appuntare tutto lo sforzo di analisi su questo sviluppo sarebbe fuorviante. Non c’è dubbio, infatti, che la maleodorante marea su cui avanzano i Salvini, gli Orbán e le Le Pen debba venire arginata e bonificata, ma sarebbe un errore ritenere che si tratti soltanto di sottrarre elettori agli imprenditori dell’odio (o di riprenderli, come s’illude parte della sinistra). La crisi che passerà al vaglio del voto va infatti retrodatata rispetto alla comparsa sulla scena di certi figuri, le sue dinamiche interpretate con una visione più estesa, le sue responsabilità attribuite con un minimo di consapevolezza storica e politica. Quella che fa dire, ad esempio, che l’affermarsi, almeno tre decenni fa, dell’ideologia mercatista, o di quel complesso di modelli culturali e organizzazione sociale che va sotto la definizione di “pensiero unico” hanno preparato il terreno su cui sarebbe poi cresciuta la malaerba nazionalista. A quel pensiero unico (e al successivo rimbalzo “rigorista”) si sono accomodate le principali famiglie politiche europee, destra e sinistra indistintamente. Ed è la ragione per la quale su di loro incombe la responsabilità di fare di questa crisi un’opportunità di crescita e di conferma del progetto europeo. Che ne abbiano l’intenzione e ne siano all’altezza è lecito dubitare.

Constatazione confermata dalle immagini convergenti con cui oggi l’Unione europea è raffigurata da studiosi di orientamento pur diverso. Sull’ultimo numero di Le Monde Diplomatique (testata non propriamente moderata) sotto il titolo compiaciuto ‘Un impero europeo in via di disfacimento’, l’ex direttore dell’Istituto Max Planck per gli studi sociali Wolfgang Streeck ha scritto che la definizione più pertinente dell’Ue è quella di “impero liberale, o meglio, neoliberale: un blocco gerarchicamente strutturato e composto di stati nominalmente sovrani”. Ma anche Timothy Garton Ash, tutto fuorché radicale di sinistra, ha inquadrato così lo stato dell’Unione: “Nato nel fitto della barbarie europea più di settant’anni fa, portato alla crisi da una hybris frutto del trionfo liberale di trent’anni fa, il progetto di una Europa migliore deve proprio cadere in basso, prima che le persone si mobilitino per riportarlo in alto?”.

Impero neoliberale, hybris liberale: quando si parla di “deriva” del progetto europeo, prima che all’internazionale sovranista bisognerebbe pensare alle scelte e alle condizioni che l’hanno in qualche modo prodotta, o ne sono state un precedente “necessario”. Accompagnato, evidentemente, alla scomparsa della sinistra. Perché quando si spiegano i nuovi fascismi come “reazione a”, bisognerebbe anche spiegare perché in altre epoche la reazione si sarebbe manifestata in senso “rivoluzionario” (inteso: rosso).

Ed è la risposta che manca oggi. Non verrà da queste righe, scuserete. Ciò che possiamo fare, per ora, è ricordare una recente fotografia di Viktor Orbán in compagnia di un Matteo Salvini che dall’alto di una torretta di guardia osserva con un binocolo uno spazio chiuso da una barriera di filo spinato. Se la storia d’Europa e le immagini con cui la ricordiamo sono ancora vive nell’elettorato continentale, quella foto basterebbe a chiarire di che natura sarebbe la loro “alternativa”.

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