L'analisi

Il fascismo sdoganato

14 maggio 2019
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‘Se non sei spaventato dall’avvento del fascismo negli Stati Uniti, ebbene dovresti esserlo’. Ancora pochi mesi fa, con questo titolo il ‘New York Times’ pubblicava un’intervista di Jason Stanley, che il fascismo lo studia da decenni, partendo da Mussolini fino ad oggi. E aggiungeva: “Quando il fascismo comincia a sembrare normale, allora siamo tutti nei guai”.

Negli Stati Uniti questo allarme e il relativo dibattito durano praticamente dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, alimentato dagli aspetti più controversi e pericolosi della sua ideologia. Soprattutto quello che viene associato – sulla base di atteggiamenti e condanne mancate – ad uno sdoganamento nemmeno troppo occulto di suprematismo bianco, razzismo, revisionismo storico, ‘endorsement’ del presidente da parte di gruppi della destra più radicale (Ku Klux Klan compreso). Fascista e sostenitore di Trump si era definito l’autore della strage anti-musulmana di Christ­church in Nuova Zelanda (50 morti), un massacro per cui il capo dello Stato americano non aveva sentito la necessità di una condanna convincente.

Lo stesso rimprovero che sempre più in Italia viene rivolto al leader leghista Matteo Salvini. Soprattutto per l’atteggiamento lassista del ministro degli Interni nei confronti di Casa Pound, dichiaratamente mussoliniana, che dal 2011 ha registrato la denuncia di 359 suoi militanti per atti di violenza, nonché venti arresti. Da anni un filo nero avvicina la nuova Lega a Casa Pound. Anche se una interpretazione lasca della legge sul divieto di ricostituzione del partito fascista ne consente la partecipazione a diversi appuntamenti elettorali. “L’unico terrorismo da attenzionare è quello islamico”, aveva commentato Salvini dopo la mattanza in Nuova Zelanda, quando già aveva derubricato a fatto isolato la mancata strage anti-africana di Macerata.

Il Salvini che sulle aggressioni di stampo neofascista mai esprime una netta presa di distanza; che nel proprio linguaggio si compiace di citare tonanti e consunte battute dell’era mussoliniana; che allo stadio esibisce il giubbotto nero Pivert, notoriamente la divisa dei “fascisti del nuovo millennio”; il vicepresidente del Consiglio che boicotta e quasi irride (“non partecipo ai derby”) le cerimonie per l’anniversario della Liberazione, pur avendo giurato fedeltà a una Costituzione nata dalla lotta al nazifascismo; e che decide, lui ministro, di pubblicare un libro-intervista con un editore pubblicamente convinto che “l’antifascismo è il vero male dell’Italia”.

Allora, Salvini fascista? Diversi storici italiani si affannano a spiegare che la riedizione di quel modello è impossibile. Ed è vero. Non siamo all’orbace, e all’olio di ricino, o anche di peggio. E non mancano le forme di resistenza democratica a questa deriva. Ma abbondano l’ammiccamento, la banalizzazione del pericolo, la postura, i “me ne frego”, la raffazzonata ideologia autarchica, la tentata riedizione di una identità nazionale da sempre improbabile e precaria. Ha forse torto Michele Serra quando scrive che i tanti voti raccolti dal capo leghista si fondano su una affinità ideologica, culturale, psicologica, di linguaggio e di comportamento che il suddetto Salvini sollecita in una vasta parte dell’elettorato italiano? “È questa empatia, non altro, che ci fa ragionare sul fascismo (mito dell’Uomo Forte), sul razzismo (il pericolo del diverso) e su altre componenti squisitamente ideologiche del nostro popolo, o perlomeno di una parte consistente di esso”. Del resto, già 24 anni fa Umberto Eco scriveva dell’Italia e del suo “fascismo eterno”. Per più di un aspetto, profetico.

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