L'analisi

Una vittoriosa incertezza

Per tutta la giornata di ieri, l’eccezionale affluenza alle urne spagnole (soprattutto in Catalogna) ha gonfiato l’attesa e l’incertezza, nel Paese e in Europa

29 aprile 2019
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Per tutta la giornata di ieri, l’eccezionale affluenza alle urne spagnole (soprattutto in Catalogna) ha gonfiato l’attesa e l’incertezza, nel Paese e in Europa. Era difficile capire se la mobilitazione fosse spinta dalla volontà di evitare il successo di una destra condizionata dai nazionalisti radicali di Vox; oppure se quest’ultimo partito, in nome della “Spagna innanzitutto”, fosse riuscito a conquistare i numerosi indecisi e anche una parte consistente degli abituali astensionisti, garantendosi così un risultato trionfale.

A sera inoltrata, dalle urne sembra uscire un verdetto che in realtà conferma le previsioni: nelle terze consultazioni in soli quattro anni, la Spagna si lascia alle spalle la lunga stabilità dell’alternanza destra-sinistra. Ormai un voto sempre più frammentato impone la necessità, e in questo caso la fragilità, di precarie coalizioni di governo. E per la prima volta dopo la dittatura entra in parlamento l’estrema destra iper-nazionalista e neo-franchista, che ottiene un chiaro successo ma non il trionfo da più parti pronosticato.

Governabilità difficile. Confermando, per una volta, i sondaggi, i socialisti ottengono una buona maggioranza relativa (controvento rispetto a recenti consultazioni europee). Ci riescono sotto la guida di Pedro Sanchez, che ha rottamato davvero i vecchi baroni del Psoe, realizzando in pochissimi mesi di governo la misura sociale che più gli premeva (l’aumento del salario minimo), e soprattutto ha cercato di disinnescare la complicata, esplosiva questione catalana, col dialogo e con l’ipotesi di una riforma in senso federalista in cambio dell’indulto ai leader separatisti detenuti.

Su questo punto Sanchez può aver vinto la sua scommessa. In effetti, se venisse confermato l’esito della cruciale e sentitissima consultazione in Catalogna (dove la partecipazione è cresciuta di ben 14 per cento), l’ala ‘dialogante’ del separatismo regionale (quella del detenuto Oriol Junqueras, convintosi che la secessione deve passare prima dalla conquista della maggioranza dei catalani) avrebbe distanziato nettamente la parte radicale dell’auto-esiliato Carles Puigdemont, contraria a qualsiasi compromesso, anche transitorio, e convinta che lo strappo da Madrid può imporsi nella logica dello scontro e dalla rivolta contro la conseguente inevitabile repressione. Se così è, l’eventuale coalizione guidata dal Psoe, con l’aggiunta di Podemos nonché di deputati baschi e valenciani, potrebbe essere un po’ meno precaria di quella che ha trascinato il Paese a queste ulteriori elezioni anticipate.

Certo rimane pur sempre una coalizione, un mosaico di problematica tenuta. Ma oggi si tratta dell’unica soluzione apparentemente proponibile in una Spagna trascinata nel vortice della crisi politico-istituzionale dal Partito Popolare, travolto dagli scandali (sono finiti dietro le sbarre una decina di suoi ministri e otto presidenti regionali), convinto di poter risolvere la questione catalana solo attraverso il pugno duro, e che surrettiziamente ha cercato una propria discutibile rivincita prima favorendo l’ascesa dell’estrema destra di Vox e poi proponendo al suo leader, il fuoriuscito Santiago Abascal, un’alleanza di governo. Vox, la ‘voce’ del ritorno al passato, tutto patria, famiglia, chiesa, euroscetticismo, anti-immigrazione, anti-emancipazione femminile, e anti-aborto. Ma non anti-divorzista, essendo divorziato il suo ‘caudillo’ Abascal, definito il “piccolo Bolsonaro iberico”. Aiutato nel suo exploit dalla parte radicale del ‘sovranismo’ catalano. Che per ora sta all’opposizione. Fino al prossimo, forse non lontano, tentativo.

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