L'analisi

Non i diritti ma solo la forza

Con la vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu, l’Israele dei nazional-religiosi sembra definitivamente avviata su questa starda

L'elettorato ha scelto "Bibi" (Keystone)
15 aprile 2019
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Lo scenario è simile a quello del 1967: dopo la vittoriosa guerra dei sei giorni, molti israeliani interpretarono l’evento come un messaggio messianico di onnipotenza, che avrebbe benedetto l’acquisizione territoriale di Giudea e Samaria, in sostanza il progetto del Grande Israele biblico. Mezzo secolo più tardi, la stessa sensazione o convinzione sembra pervadere quella parte di società israeliana che per la quinta volta ha decretato la vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu, garantendogli (nonostante il buon risultato del blocco centrista) la formazione del governo più nazionalista, più religioso e più annessionista nella storia della nazione.

Cosa avverte l’elettore che ha scelto “Bibi” e i suoi alleati radicali? Che tutto sembra girare in favore di Israele. Una leadership palestinese mai così divisa e debole, più interessata, in Cisgiordania e Gaza, a reprimere il dissenso interno che a battersi per i diritti del proprio popolo con abilità, coerenza, efficacia. Un conseguente stato di rassegnazione, da Ramallah a Gerusalemme Est alla “striscia” miserevole e sovraffollata al confine con l’Egitto. Più in generale, nel campo musulmano, assiste allo scontro sunniti-sciiti, con i primi che, Arabia Saudita in testa, stringono sotto-traccia un’alleanza strategica con il governo israeliano. Quindi una guerra civile siriana che ha lacerato i rivali islamici, togliendo dai primi posti dell’agenda regionale il “problema sionista” (per la verità da tempo assai intiepiditosi) e aperto le porte alla Russia, che anche in questa occasione ha tifato il “sovranista” Netanyahu.

Infine, e soprattutto, quell’elettore vede la “benedizione Trump”. Cioè il “miracoloso” arrivo sulla scena di un presidente americano che ha abbandonato la tradizionale linea (o l’antica ipocrisia?) di un’America facente funzione di mediatore, che ha promesso senza mai produrlo un nuovo e originale piano di pace (se ne occupa suo genero, rampollo di una famiglia di ortodossi ebrei americani), che ha praticamente messo nelle mani di “Bibi” la gestione della politica statunitense nel conflitto israelo-palestinese e nel confronto con l’Iran. Trump “provvidenziale amico”, che ha regalato a Israele sia Gerusalemme (tutta Gerusalemme) riconoscendola de facto capitale di Israele, sia la definitiva annessione del Golan siriano.

Un senso di euforia che ha del resto spinto lo stesso Netanyahu ad accelerare su due progetti: la controversa decisione di proclamare Israele “lo Stato degli ebrei” (declassando ancor più gli arabi israeliani, il 20 per cento della popolazione); e quindi a proclamare la volontà di annettere una parte consistente della Cisgiordania occupata (gettando infine la maschera che copriva la sua ostilità alla soluzione dei “due Stati”).

La storia è piena di regolamenti basati non sulla ragione ma sulla forza. Su questa strada l’Israele dei nazional-religiosi sembra definitivamente avviata, anche grazie all’alleato americano, anch’egli convinto che conti soprattutto la politica muscolare. Ma in politica il messianismo è stato spesso illusorio, gli amici non sono eterni, e la prepotenza non è sempre il miglior viatico alla pace.

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