L'analisi

Una Brexit vada come vada

Non sappiamo come andrà a finire

Keystone
3 aprile 2019
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Non sappiamo come andrà a finire. E non lo sanno neppure quanti potrebbero deciderlo. Ma che la Brexit diverrà un caso di scuola è certo. E questo lo si poteva sapere con largo anticipo, a conferma che per rompere un contratto di orizzonte storico come quello che ha dato vita all’Unione europea non è sufficiente la volontà di una delle parti. Si potrebbe persino arrivare a dire che una parte, da sola, non è legittimata a farlo, nemmeno appellandosi a una presunta volontà popolare. Quella che uno sventato David Cameron chiamò a esprimersi sull’uscita dall’Ue, convinto di farne una leva per regolare le dinamiche politiche domestiche, e tagliando la corda una volta resosi conto che il proprio cinismo gli si era rivoltato contro.

Da allora la Brexit è stata un’imbarazzante messinscena di velleità e pochezza interpretate con consumata viltà dai suoi campioni. Nigel Farage, uno dei molti mantenuti del parlamento di Strasburgo, levatosi di torno una volta fatto saltare il banco, forse consapevole di non avere mezza idea su che cosa fare di un Regno Unito finalmente libero dal giogo europeo. O Boris Johnson, messosi dapprima al riparo dell’incarico di ministro degli Esteri, e poi uscito allo scoperto avendola giurata a Theresa May. E dietro a loro la pletora di parlamentari (e di media più o meno paludati) i cui nomi dicono poco a Sud della Manica, ma che lassù dettano legge.

Nei mesi di trattative con l’Unione europea a partire dall’applicazione richiesta da Theresa May dell’articolo 50 (che regola l’uscita volontaria dall’Ue secondo il Trattato di Lisbona), la stessa Unione ha subito un peggioramento del proprio malessere che ha determinato, e potrebbe spiegare, una eventuale rigidità dei negoziatori di Bruxelles. La spaccatura sui migranti, il rafforzamento dell’asse nazionalista, le pulsioni separatiste catalane, lo shock elettorale in Italia, la parabola discendente di Angela Merkel sono stati, tra gli altri, argomenti fatti propri dai brexiteers e al tempo stesso hanno cementato la volontà delle istituzioni comunitarie di non consegnare a Londra il potere di minare le fondamenta della casa comune. O, più prosaicamente, di autotutelarsi, non concedendo ciò che altri potrebbero a loro volta pretendere (e che le dichiarazioni del nuovo governo italiano appena entrato in carica potevano far supporre).

Vada come vada, un risultato è sotto gli occhi di tutti. Una Camera dei Comuni (che Banksy ha disegnato come un consesso di primati) inchiodata alle proprie contraddizioni. Un capo del governo battuto tre volte consecutivamente sullo stesso oggetto vitale per il Paese (l’intesa con l’Ue per una Brexit concordata) e tuttavia inamovibile, ridotta a chiedere un altro rinvio a Bruxelles. Un capo dell’opposizione, Jeremy Corbyn, vittima a sua volta del proprio tentativo di cavalcare un antieuropeismo di sinistra, che ha finito per portare acqua alla destra nazionalista, xenofoba.

Forse fra molti anni – fatta la tara ad alcune peculiarità british, a partire da una patetica nostalgia d’impero e dal suo risibile retaggio di pretesa superiorità insulare – si studierà la Brexit come l’evento che accelerò lo sgretolamento dell’Unione europea. O, al contrario, come il trauma che determinò un sussulto di consapevolezza, riorientando al suo spirito originario il progetto comunitario. Ma questo domani, un domani remoto.

Oggi i conti si fanno con un parlamento che ancora non ha scelto tra prendere o lasciare. Le tardive, fantasiose proposte legislative per scongiurare il proprio fallimento sembrano ormai un tentativo di distribuirne l’onere sui soci da cui ci si vuole distaccare. God save the Eu.

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