L'analisi

Intesa o caos in Afghanistan

Una bozza d'intesa tra Stati Uniti e Taleban per metetre fine a 17 anni di guerra

29 gennaio 2019
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Il ‘deal’ in apparenza è semplice: gli americani lasciano l’Afghanistan, in cambio dell’impegno dei Taleban a non accogliere organizzazioni terroristiche internazionali. Leggasi al Qaida o Isis. La bozza d’intesa annunciata ieri si ferma più o meno qui. Un po’ poco.

Il presidente afghano Ashraf Ghani è comprensibilmente inquieto. Dopo 17 anni di guerra e sei giorni di negoziati nel Qatar, Washington è pronta a ritirare i suoi quattordicimila soldati. Di riflesso, anche i rimanenti ottomila della coalizione di 38 Paesi si avvierebbero verso casa.

Gli Stati Uniti chiedono in sostanza garanzie per evitare che l’Afghanistan diventi una base del jihad anti-americano, così come avvenne a partire dagli anni 90, quando i mujaheddin, sconfitto e cacciato l’invasore sovietico, si rivoltarono contro i loro sponsor, precipitando il Paese in una guerra civile devastante.

Venuti dopo, e contro, di loro, gli ancor più fanatici Taleban, cresciuti nelle scuole coraniche pachistane, presero il controllo dell’Afghanistan nel 1996 e infine ne vennero cacciati a loro volta dalle bombe statunitensi all’indomani dell’11 settembre 2001. Da allora hanno sempre rifiutato di negoziare con il governo di Kabul, considerato un fantoccio dello zio Sam. E se discussioni dovevano essere, sarebbero state solo con il “burattinaio americano”.

È una bozza di intesa, dunque, ma al momento i Taleban non hanno neppure garantito un cessate il fuoco. Non si parla di governo di coalizione, né di rispetto dello Stato di diritto. Poco, molto poco. Solo un bagliore, una piccola porta socchiusa.

Ghani chiede il rispetto di valori fondamentali e imprescindibili, a cominciare dall’unità del Paese. Altrimenti – ha avvertito – non ci sarà pace. Ma i suoi margini di manovra sono estremamente limitati, quasi risibili. Senza la protezione degli Stati Uniti lui non è nessuno. Lo stillicidio di carneficine è ininterrotto: dal 2014, anno della sua elezione, 45mila membri delle forze di sicurezza, poliziotti o militari, sono stati uccisi dai Taleban. Una cifra folle.

Il regime degli studenti (‘Taleban’ nelle lingue locali, pashtun e dari) dal 1996 è stato un inferno lungo quasi sei anni, nel quale le prime ma non uniche vittime sono state le donne e le bambine, private dei più elementari diritti.

L’Afghanistan è ancora il Paese “in cui il disastro è iniziato”, come ci ricorda l’islamologo Gilles Kepel nel suo ‘Sortir du chaos’ fresco di stampa. Il jihad anti-sovietico finanziato dagli Stati Uniti, vittorioso nel 1989, tracimò infatti invadendo progressivamente l’Algeria, il Maghreb, il Levante, l’Iraq, la Siria, e l’Occidente. In un’intervista lo stratega americano Zbigniew Brzezinski dichiarò di non aver rimpianti sul finanziamento al jihad afghano perché sul piatto della bilancia la fine dell’Urss e della guerra fredda pesano molto più della minaccia anti occidentale di qualche “jihadista esaltato”. Aggiungendo che “non esiste il jihad globale”. Analisi smentita dalla storia più recente.

Oggi non si può che sperare che dalla terra nella quale iniziò il caos si abbozzi una soluzione per uscirne. Ma la circospezione è d’obbligo. I Taleban sono impegnati in una guerra intestina con l’Isis (che, paradosso dei paradossi, in Afghanistan sarebbe sostenuto dall’Iran sciita) per la leadership jihadista globale. Il sospetto è che, coerente con il suo slogan ‘America First’, Donald Trump accetti frettolosamente un patto con il diavolo in chiave anche anti Isis e anti Iran, abbandonando alla mercé dei fanatici di Allah un popolo indifeso in un Paese esangue. Che – lo abbiamo constatato – chiede protezione internazionale.

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