L'analisi

Tutti i Bolsonaro del mondo

Si scrive Bolsonaro e si legge il titolo di Tony Judt: ‘Guasto è il mondo’.

30 ottobre 2018
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Si scrive Bolsonaro e si legge il titolo di Tony Judt: ‘Guasto è il mondo’. E deve essere così, se in un’America Latina dove una generazione fa signoreggiavano giunte militari sanguinarie, dove ancora milioni di persone portano sulla propria pelle i segni delle torture o piangono figli di cui non hanno più saputo nulla, diventa presidente del Brasile un campione dell’estrema destra, razzista, emulo dei torturatori di cui il suo Paese si è liberato poco più di trent’anni fa.

Si potrebbe obiettare che solo alle anime belle poteva sfuggire come la rapidità della crisi delle democrazie occidentali preparasse il terreno al proliferare di un autoritarismo multiforme; o ammonire che l’avere ignorato quanto la concentrazione della ricchezza in sempre meno mani minasse le fondamenta delle democrazie stesse, ha indotto a scambiare i Bolsonaro, Duterte, Trump, Orbán, Salvini per cause della crisi, senza capire che ne sono la conseguenza. E c’è del vero, naturalmente.

Ma non basta. Come non basta la fondata osservazione che la scomparsa del grande nemico, il comunismo, ha sciolto le briglie a un capitalismo finanziario che ha fagocitato politica e cultura, riducendo la prima (e le istituzioni che ne vivono) all’impotenza e al servaggio, la seconda a orpello superfluo o complice. Lasciando le società in balia di istinti animali, apparentemente anarchici (l’illusoria “libertà” della rete) ma in realtà alla ricerca del capobranco.

Nonostante ciò, per quanto si parli di “un” mondo guasto, le manifestazioni di questo male sono tali e tante da richiedere spiegazioni puntuali, non generalizzazioni sommarie. I nazionalismi stessi che si affermano in Europa (dove anche un baluardo di apparente solidità come Angela Merkel è finita all’angolo) originano da situazioni non paragonabili: l’Ungheria beneficiaria di fiumi di euro dall’Ue non è l’Italia in cui il risentimento piccoloborghese ha preso il posto della lotta di classe; né la sovranità reclamata da Alternative für Deutschland può essere associata a quella della Polonia, il cui presidente arriva a rivendicare il diritto sovrano di continuare a utilizzare le lampadine a incandescenza. Né si può paragonare il miliardario Trump al plebeo Duterte e non solo per la sproporzione tra i Paesi di cui sono a capo. O pensare che i latifondisti brasiliani abbiano preferito Bolsonaro a Haddad disgustati dalla corruzione che ha travolto il partito di Lula, e siano così parte della supposta rivolta planetaria contro le élite, associabili all’elettorato di Marine Le Pen.

C’è però che tutti i campioni di questo indirizzo si ammirano a vicenda e condividono una certa invidia (salvo scontrarsi quando si disputano interessi strategici o commerciali) per la libertà d’azione di cui dispongono autocrati che neppure fingono di essere democratici, da Putin a Xi Jinping a Erdogan; hanno in comune la capacità di costruire, inventandolo, un nemico, dal migrante al “negro” (più che la working class è stato il razzismo bianco a eleggere Trump), al comunismo.

C’è, in altre parole, una comune trama ideologica su cui tessono il proprio disegno i nomi che abbiamo fatto. Sono, in effetti, l’alternativa rabbiosa agli universalismi che da un paio di secoli ritenevamo scontati, e che nel secondo dopoguerra avevano disegnato l’aspetto del mondo. Solo a salvarsi, guarda caso, un capitalismo diventato forma mentis planetaria.

E bisogna ammettere che le parole per definirli ancora mancano: chi le possedeva è ridotto al silenzio non tanto in un confronto da cui sia uscito sconfitto, ma dal rifiuto stesso del confronto. Questi sono uomini “del fare”, il pensiero viene dopo. Ma chissà che cosa pensano i milioni che li votano.

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