L'analisi

Ignazio Cassis, gaffe maldestra o nuova diplomazia?

Da New York a Berna non si placano i malumori per le critiche del consigliere federale ticinese all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi

(foto Ti-Press)
4 giugno 2018
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Non c’è che dire: non capita spesso che la Svizzera crei attriti sul fronte diplomatico internazionale. A far eccezione è la visita di Ignazio Cassis in Giordania. È bastata una frase al capo del Dfae per suscitare polemica, da Berna a New York. Improvvida dichiarazione risultato dell’inesperienza sull’arroventato dossier mediorientale oppure nuovo orientamento diplomatico maturato dopo approfondita riflessione? Sta di fatto che lo stesso presidente della Confederazione Alain Berset ha dovuto scendere in campo per riaffermare la tradizionale linea politica praticata dalla Confederazione all’insegna della neutralità. Ciò non è bastato a placare gli animi: Micheline Calmy-Rey ha paragonato le parole di Cassis alle «sparate» di Trump mentre al palazzo di vetro a New York le proteste non si sono fatte attendere, tanto da mettere a repentaglio la cooptazione della Svizzera al Consiglio di Sicurezza, prevista fra poco più di 3 anni. L’oggetto del contendere è in sostanza l’affermazione secondo cui l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) sarebbe ormai un ostacolo alla pace, in quanto manterrebbe viva la speranza di un ritorno dei rifugiati nella Palestina pre guerra del 1948, alimentando illusioni e di riflesso il perdurare del conflitto. Molto meglio, nell’ottica di Cassis, smantellare le strutture dell’Unrwa e integrare i rifugiati nei Paesi di accoglienza. I 59 campi in cui vivono circa 5 milioni di profughi, sono situati principalmente in Giordania, Libano, Striscia di Gaza, Cisgiordania e Siria. Una posizione, quella di Cassis, che riflette un’indubbia logica (chi preferirebbe in effetti vivere in una tenda o in un container piuttosto che in un appartamento?) ma che può tuttalpiù suscitare il plauso del governo israeliano, a cui il capo della nostra diplomazia sembra particolarmente vicino. L’integrazione, ammesso che questa sia realistica in contesti demografici, etnici e culturali molto problematici (in Libano ad esempio ai profughi palestinesi si è aggiunto oltre un milione di profughi siriani, per una popolazione ben inferiore a quella della Svizzera), porrebbe una seria questione di diritto internazionale. Il ritorno dei profughi è un principio sancito dalle Nazioni Unite all’indomani della guerra arabo israeliana del 1948 (risoluzione 194). È il ruolo di uno Stato neutrale quello di caldeggiare ipotesi che de facto si contrappongano alle decisioni dell’Onu ? Recentemente di passaggio a Lugano per una serata Rsi, l’Alto Commissario per i Rifugiati (Unhcr) Filippo Grandi ha trovato le parole giuste: «L’Unrwa non è né il problema né la soluzione». In effetti questi, ha precisato Grandi, sono di ordine politico, non umanitario. Certo non ha torto chi sostiene che l’applicazione letterale della risoluzione 194 sarebbe impraticabile per Israele. Ma perché chiedere ai palestinesi una rinuncia unilaterale? Sul piatto della trattativa (come previsto dagli accordi di Oslo del 1993 e dall’intesa sfiorata nel 2000 tra Yasser Arafat e il premier israeliano Ehud Barak con la mediazione di Bill Clinton) devono essere messi i diversi elementi negoziali: rifugiati, sicurezza di Israele, statuto di Gerusalemme e, last but not least, fine dell’occupazione illegale (Corte Internazionale dell’Aia, Onu, Amnesty International, Unione europea) della Cisgiordania da parte di centinaia di migliaia di coloni, occupazione che stando all’ex presidente americano Jimmy Carter, l’artefice degli accordi di pace di Camp David, ha creato un vero e proprio regime di apartheid tra ebrei e non ebrei. Una segregazione sulla quale anche la diplomazia Svizzera ha certamente qualcosa da dire.

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