L'analisi

I Conte senza l’oste

Troppa fretta nell’indicare il nome del prossimo capo di governo

23 maggio 2018
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Per mettersi alla guida di un governo Di Maio-Salvini bisogna corrispondere ad alcune condizioni. Nell’ordine, e non per forza escludendosi l’un l’altra: condividerne la tela di fondo (come una versione aggiornata del caricaturale Giolitti bifronte, ma quello era Giolitti); essere divorati dall’ambizione (magari taroccando un curriculum già ridondante); nutrire intenzioni (politicamente) suicide.

Francamente non si può incatenare da ora Giuseppe pochette Conte (sempre che sia lui) a questo profilo; e gettarsi come cani da caccia addosso al candidato presidente del Consiglio più elegante degli ultimi decenni potrebbe apparire poco più di un passatempo giornalistico.

Sorvoleremo dunque su come possa rapidamente cambiare da negativa in positiva l’accezione di “non eletto” applicata a un capo dell’esecutivo (ricordiamo tutti le litanie di un pensatore fondamentale come Alessandro di Battista), ma il contesto e il modo in cui il suo nome è stato indicato per la guida del prossimo governo sono un inconfondibile rivelatore di una condizione generale della politica in Italia. Quella che fa dire agli artefici del “contratto per il cambiamento” che il capo del governo sarà un “esecutore”, il conducente di un tram che viaggia su binari posati da altri. Un presidente – peraltro prodotto esemplare dell’establish­ment – sotto tutela, secondo alcuni; la conferma che il potere torna nelle mani “del popolo”, secondo altri (in sintonia con Trump, che lo annunciò nel discorso d’insediamento…); e comunque una deroga non trascurabile al dettato della Costituzione, secondo la quale il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile”.

Non sappiamo a questo punto se Sergio Mattarella affiderà l’incarico al professor Conte. La sua insistenza sul fatto che il presidente della repubblica “non è un notaio” è legittima ma è un fragile argine alla tracotanza dei Due, e ha, di nuovo, un limite nella Costituzione, secondo la quale è legittimo l’esecutivo che dispone di una maggioranza parlamentare. Quello 5Stelle-Lega l’avrebbe, forzando in qualche misura il risultato elettorale (le due formazioni erano avversarie), ma non quanto avvenne con gli incarichi a Dini o a Monti, che il risultato delle elezioni avevano ribaltato del tutto. Nel nome del superiore interesse patrio, d’accordo e senza troppa ironia.

Oltretutto, se si volessero considerare i risultati delle consultazioni elettorali successive alle legislative del 4 marzo (quasi inevitabilmente, da quando – vero stigma della politica di questi tempi in tutto l’Occidente – l’esercizio di governo non si distingue più dalle campagne elettorali) se si volesse fare ciò, bisognerebbe constatare che i giornali possono scrivere e strascrivere, ma tra gli elettori il consenso per l’area che si appresta a governare non fa che crescere. Parallelamente al tracollo delle formazioni che si erano disputate il governo negli ultimi decenni, e a un aumento dell’astensione a livelli mai conosciuti nel Paese.

Questo è il problema di oggi e dei prossimi anni, del quale – non si faccia illusioni il resto d’Europa – l’Italia è “soltanto” un laboratorio avanzato. Fallendo, come è presumibile, il governo più a destra degli ultimi cinquant’anni, si aprirà un vuoto che ancora non si hanno le parole per definire.

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