L'analisi

La fiera delle nullità

Se questa è (era) la “terza repubblica” proclamata da Luigi Di Maio nella tarda serata del 4 marzo, c’è solo da temere per la prossima

9 maggio 2018
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Se questa è (era) la “terza repubblica” proclamata da Luigi Di Maio nella tarda serata del 4 marzo, c’è solo da temere per la prossima. A due mesi dalle legislative italiane, il fallimento dei “vincitori” è palpabile, clamoroso, indecoroso. E risibile (anzi, funzionale alla prossima campagna elettorale) l’accusa agli “sconfitti” di avere sabotato i loro tentativi di dare vita a una maggioranza.

Se, come hanno spiegato gli analisti e come hanno sostenuto Di Maio e Matteo Salvini, i voti andati a 5Stelle e Lega non erano voti di protesta ma di alternativa, di progetto, i primi a tradire tale fiducia sono stati proprio loro, determinati a perpetuare la campagna elettorale, mentre il successo riscosso esigeva una presa di responsabilità sia pur di base. A partire dal riconoscimento che la propria dote di voti non sarebbe bastata a governare soli. Ma no, sanno solo protestare (che è pure una virtù politica, ma di quelle più abusate) e in tale veste si sono succeduti al Quirinale, facendo perdere tempo al presidente Mattarella e a un Paese intero. Tremando, in segreto, alla sola idea di governare davvero.

I motivi sono chiari in maniera persino imbarazzante. Un Di Maio eterodiretto da Grillo e Casaleggio ha recitato la messinscena dei “due forni” finendo a sua volta infornato, a causa soprattutto della propria inconsistenza.

A quell’altro, il Salvini, che come molti bambini da piccolo sognava di guidare una ruspa, è bastato l’avvertimento di Berlusconi (“tradiscimi e perdi le Regioni che la Lega presiede grazie ai miei voti”).

Si potrebbe dire, sì, di quel Berlusconi, invecchiato abbastanza da non rendersi conto della pena che ispira, ma ancora caimano a sufficienza per cercare di difendere “la roba” con tutta la pervicacia (e i soldi e i media) che gli rimane. Ma lui è un ostacolo, non la ragione del fallimento.

Come non lo è il Pd. Il cui stato è ben rappresentato dal siparietto del segretario dimissionario che va in tv a sparare alla schiena al suo sostituto e a una buona metà della dirigenza del partito che (sciaguratamente) sembrava incline ad “ascoltare” le proposte dei 5Stelle. È quello che più di tutti teme elezioni a breve termine, con fondati motivi.

Sono queste dinamiche politiche che l’Italia ha conosciuto decenni fa, quando il partito di maggioranza relativa esercitava il proprio potere aggregando scampoli e scarti di forze altrui. E governava, assicurando continuità al “sistema”. Il problema di oggi è che un’analoga maggioranza relativa (politicamente relativa, ma socialmente assoluta, con un sovrappiù di rancore e sfiducia) è a disposizione di forze “antisistema”, votate per definizione a mandare tutto all’aria. Il che fa dire che questa crisi è destinata a durare e, durando, ad aggravarsi.

Le poche voci e le poche figure che potrebbero portare non falso ecumenismo ma argomenti di ragione e solidità di scelte (e ci sono, ché non sono “tutti uguali”) sono messe a tacere dal chiasso dominante. Dunque, vicine o lontane che siano le prossime elezioni, ciò che già ora appare chiaro è che non saranno in alcun modo risolutive.

In un’altra temperie storica, converrà ricordarlo, questa situazione sarebbe stata la più favorevole a tentativi di eversione o prove di forza di cui troppi italiani hanno perso la memoria. Oggi, che pur non si spara più né si fanno esplodere bombe (per fortuna), della demolizione di un patto di convivenza si sono incaricati proprio coloro che se ne pretendono “nuovi” interpreti. Finché, antico vizio, qualcuno salterà fuori a dire che ci vuole “uno che comanda” (a meno che corriamo troppo con la fantasia…).

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