L'analisi

Ed ecco apparire Kim il pacifista

Soltanto sulla base di uno sguardo superficiale in molti lo hanno semplicemente considerato un folle

23 aprile 2018
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Soltanto sulla base di uno sguardo superficiale in molti lo hanno semplicemente considerato un folle. Folle la ferocia dittatoriale con cui liquida i suoi veri o presunti nemici interni; e folle il programma (99 lanci di missili balistici, e quattro test nucleari) della sfida nucleare alla prima potenza mondiale.

In realtà, la stella polare del ‘terzo Kim’, erede della dinastia comunista che guida da alcune generazioni la Corea del Nord con pugno di ferro e con uno spasmodico culto della personalità, è sempre stata la sopravvivenza del regime. Con ogni mezzo. Le armi. Ma anche la realpolitik. Seguendo la prassi del nonno e del padre: portare al limite il braccio di ferro, ma fermarsi sull’orlo del baratro, negoziare per raccogliere il massimo ottenibile, per poi ricominciare.

È stato così con tutti i presidenti americani, impegnati nella difesa dei suoi interessi strategici, dei propri alleati asiatici. Pratica applicazione, per Kim, di una delle più note massime del filosofo e stratega cinese Sun Tzu, che nell’‘Arte della guerra’ ammonisce: “L’invincibilità sta nella difesa, la vulnerabilità sta nell’attacco. Se ti difendi sei forte, se attacchi sei più debole”. Il tutto dominato dalla certezza che la guerra vinta è quella che non si combatte.

Anche questo sfondo filosofico spiega perché, dopo mesi di insulti, escalation verbal-militari, esaltazione del “pulsante nucleare più potente” (in buona dose ricambiato, come fra adolescenti rissosi), Kim Jong-un annunci la fine degli esperimenti atomici e l’abbandono del sito dei test nucleari, “che ha concluso la sua missione”. In questo modo offrendo ad un entusiasta Donald Trump il primo successo sullo scacchiere internazionale, che va riconosciuto. Apertura sincera e definitiva, o micidiale trappola politica? Come detto, i precedenti inducono alla prudenza. Tanto più che il dittatore di Pyongyang non ha annunciato la denuclearizzazione del suo Paese.

Ci sono comunque aspetti immediati e concreti nella svolta del giovane Kim. Possono aver avuto un peso le sanzioni economiche (a cui si è associata formalmente anche Pechino), anche se un peso relativo per un Paese autarchico e costretto in povertà dalla sua dirigenza. Ha sicuramente inciso il calcolo di un avvicinamento alla Corea del Sud (per nulla convinta dei toni minacciosi della Casa Bianca) e il timore di una vigorosa militarizzazione del Giappone.

Ha inciso la pressione della Cina, salvagente economico di Pyongyang, naturalmente interessata alla sopravvivenza di un regime che agisce da cuscinetto ed evita il contatto diretto con la forza militare statunitense. Infine, e soprattutto, Kim vede la concreta possibilità che l’America abbandoni l’idea di un ‘regime change’ a Pyongyang, quindi che ufficializzi la sua garanzia per la continuità del regime.

Ma una Corea del Nord con o senza arsenale atomico? Qui sta l’incognita del futuro negoziato. È possibile che Washington ritenga (come suggerito da diversi esperti) che in realtà la ‘bomba’ di Kim non rappresenti ancora una autentica minaccia, che i suoi missili siano facilmente neutralizzabili, e dunque che basti un congelamento dell’attuale ‘forza nucleare’ nord coreana. Se così non fosse, Trump raccoglierebbe un frutto succoso, politicamente allettante. Ma poco più.

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