L'analisi

I missili, i dubbi e gli scenari

Attacco alla Siria: il presidente Usa, l'Europa e Putin

foto Keystone
16 aprile 2018
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Promanava eccitazione e giubilo nell’annunciare l’attacco di missili “nuovi, belli e intelligenti” contro i centri di ricerca e presunti depositi di armi chimiche. Il precedente annuncio, fatto una decina di giorni fa, andava proprio nella direzione opposta: “Ci ritiriamo dalla Siria”. Difficile capire ogni volta dove si ferma la pallina nella roulette mentale del presidente americano: isolazionista, interventista, pacifista, guerrafondaio a seconda degli umori e dei pruriti che hanno già decimato il suo staff e che disorientano per la brutalità del linguaggio nonché per un semplicismo e un’incoerenza disarmanti. In realtà nessun osservatore indipendente è oggi in grado di dire se dopo mesi di guerra nella Ghouta orientale a colpi di raid aerei, di rudimentali barili esplosivi o di sofisticate bombe ‘bunker-buster’ capaci di penetrare nei rifugi, l’esercito abbia fatto ricorso anche a proiettili al cloro o al gas nervino Sarin. Ci si può allora legittimamente chiedere, come ha fatto l’ambasciatore russo all’Onu, perché Usa, Francia e Regno Unito non abbiano voluto attendere l’esito dell’inchiesta avviata a Damasco dagli ispettori internazionali dell’Opac (l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche). Che si sia di nuovo di fronte a una manipolazione dell’informazione da parte della Casa Bianca e alleati non è certo. Tuttavia il dubbio è lecito. E affermando impettito “Mission accomplished ”, celebre formula già utilizzata nel 2003 sulla portaerei Abramo Lincoln da uno spavaldo George W. Bush, Donald Trump non ha fatto che alimentare il sospetto di un déjà-vu, della replica di una guerra scatenata sulla base della storica fake news dell’esistenza di arsenali di distruzione di massa in Iraq. Anche l’etica a geometria variabile di Washington non può essere ignorata: l’interesse per la vita dei civili siriani è in effetti speculare all’indifferenza per quella degli yemeniti (massacrati dalle bombe dei sauditi) o, mutatis mutandis, per la condizione della popolazione palestinese. Bombardati i presunti depositi di armi chimiche, l’impressione è che la visione americana a medio termine sia più o meno inesistente. L’attacco, molto limitato in realtà per la ritrosia del segretario alla difesa James Mattis molto circospetto sulle presunte prove definitive a carico di Damasco, non chiarisce le intenzioni del fronte occidentale. Macron tende subito una mano a Putin (che incontrerà in maggio), l’opinione pubblica sembra non voler più bere la spremuta di fake news di qualsiasi origine essa sia, Trump sta affondando (‘Washington Post’) in una serie di scandali e inchieste, Israele lancia pesanti raid in territorio siriano (contrariamente a Trump, nella discrezione e senza vanti) ma teme comunque un’eccessiva destabilizzazione (tra le due grandi roccaforti dei ribelli, ormai quasi tutti islamisti, oltre alla provincia settentrionale di Idlib vi è quella di Deraa, a ridosso della frontiera con la Giordania e lo Stato ebraico). In Siria le minoranze, a cominciare da quella cristiana, insorgono contro l’occidente di cui denunciano l’ipocrisia e il bellicismo: all’unisono le Chiese denunciano gli attacchi di venerdì notte. È possibile che l’escalation avviata dai Paesi Nato sia soprattutto da leggere in chiave contenimento della Russia (non solo in Medio Oriente, ma pure nel Caucaso, sul fronte baltico o in Ucraina). “Il tempo delle parole è finito” ha proclamato la sanguigna ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley. Sarà, eppure la pioggia di tweet bislacchi non è cessata, rafforzando le inquietudini e la sensazione di un totale vuoto strategico.

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