L'analisi

Le fatiche di Mattarella

Adesso, chi dice di voler fare faccia; chi sostiene di saper fare lo dimostri

4 aprile 2018
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Adesso, chi dice di voler fare faccia; chi sostiene di saper fare lo dimostri. Ma è probabile che il giro di consultazioni che si apre oggi dal presidente Mattarella in vista della formazione di un nuovo governo in Italia si esaurirà in un nulla di fatto. Vane le sue fatiche. I garruli vincitori delle elezioni del 4 marzo (due, esito paradossale di una legge elettorale sciagurata) Di Maio e Salvini non hanno da offrire al capo dello Stato nulla se non la propria sicumera. Né l’uno né l’altro può assicurare al presidente di essere sostenuto da una maggioranza parlamentare (salvo gettare la maschera e allearsi); ed entrambi, probabilmente, si raffigurano in cuor loro come quello spaventato George W. Bush che all’indomani della sua prima elezione, su una copertina di ‘The Nation’, si chiedeva: “Cosa? Io presidente?”. Già: una volta vinte le elezioni, bisogna onorare gli impegni. E incombe ai due pretesi vincitori essere conseguenti. Per ora si è assistito a una penosa recita a soggetto. Di Maio ha trascorso i giorni lamentando che “non ci vogliono far governare”. Lui che, prima di subire una vistosa metamorfosi democristiana (“siamo pronti a dialogare con tutti”), predicava l’irriducibile purezza che da quei tutti distingueva i grillini. Ora propone un “contratto” alla Lega o al Pd. Neanche lui fosse Merkel, e gli altri due intercambiabili. Salvini, da parte sua, ha esercitato come lo spaccone che conosciamo, annunciando tutto l’annunciabile, dalla revoca delle sanzioni alla Russia all’espulsione dell’ambasciatore francese e migranti annessi, potendo anche vantare un successo parziale nella ridefinizione della leadership della destra, quando ha bloccato l’elezione del candidato di Berlusconi alla presidenza del Senato. Successo ottenuto votando al suo posto Maria Elisabetta Alberti Casellati, la pasdaran berlusconiana secondo la quale Karima El Mahroug, in arte Ruby, era la nipote di Hosni Mubarak, e che considerava la magistratura una disgrazia quando inquisiva il suo Signore. Votata, la signora, anche dai Cinque Stelle del Di Maio sopra citato. E passi. Di tutto si è già visto, e forse anche di peggio. Il fatto è che queste non sono premesse, ma sono già la nuova politica votata dagli italiani, destinata a durare ben oltre il tempo di una parentesi imbarazzante. Ed è dunque di questa che bisogna ragionare, ritenuto che accanto ad essa i movimenti che più si avvertono confermano la cesura determinata dal voto: l’eliminazione dal tavolo di gioco di Berlusconi e del Pd. Una rimozione che ha fondate e palesi spiegazioni, nel fallimento del primo e nel tradimento della fiducia estorta al proprio elettorato da parte del secondo. E in ogni caso una messa ai margini senza equivoci, sancita da un voto democratico. Il che, da un lato, rende grottescamente vane le diatribe interne al Pd circa la posizione da tenere – collaborazione o opposizione? – quasi che all’opposizione non l’avessero già mandato gli elettori; e dall’altro rivela la dimensione patetica delle pretese berlusconiane, per gli stessi motivi, oltre che per buon gusto. Cosicché la sola risorsa in mano agli sconfitti è un residuo potere di ricatto o condizionamento, che certamente proveranno a esercitare, tale e quale quello dei partitini della prima repubblica, o dei Mastella e dei Bertinotti della seconda. Solo che, di repubblica in repubblica, lo spessore dei ricattabili si è andato assottigliando. Di loro, tolto il volume della voce, resta ben poco. E Mattarella dovrà cavarne qualcosa. La sua nota laconicità varrà più di tutte le “loro” parole.

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