L'analisi

I tanti 'dottor Stranamore' di Trump

Da Mike Pompeo a John Bolton passando per Nikki haley e James Mattis, il capo della superpotenza nucleare si affida ai consigli di un gruppo di guerrafondai

26 marzo 2018
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Adesso al vertice della diplomazia e della sicurezza americana ci sono Donald Trump, Mike Pompeo neosegretario di Stato, John Bolton appena nominato consigliere per la Sicurezza nazionale. E dei tre il più ‘moderato’ sarebbe Trump. Aggiungeteci il generale ‘super-falco’ James Mattis alla difesa, e l’incendiaria Nikki Haley sulla poltrona Usa alle Nazioni Unite. Davvero un poco tranquillizzante quadretto, il capo della superpotenza nucleare che si affida ai consigli di un gruppo di guerrafondai. Fra i quali c’è chi di guai ne ha già combinati abbastanza, risultando addirittura corresponsabile della nascita del terrorismo autoproclamatosi islamico, che è tornato a colpire ancora pochi giorni fa in Francia.

Lo dice la storia. John Bolton, ex ambasciatore all’Onu e che in futuro avrà dunque ‘l’orecchio del presidente’ per le questioni della sicurezza americana, è infatti uno dei massimi teorici dell’uso della forza da mettere al servizio della trumpiana ‘America first’.

All’epoca di Bush figlio, fu Bolton il più ‘con’ dei ‘neocon’. Cioè del team che convinse l’allora capo della Casa Bianca a realizzare il disegno imperiale che consisteva (dopo l’undici settembre) nel decidere l’invasione dell’Iraq, abbattere il dittatore Saddam Hussein, sfasciare tutti gli apparati militari e amministrativi del Paese, e instaurare la democrazia delle baionette a Baghdad. Fu lui a insistere testardamente sulle ‘armi di distruzione di massa’ (mai trovate) in mano al rais arabo, e in sostanza a costringere il ministro degli Esteri Colin Powell all’umiliante e ridicola esibizione di un paio di fialette che avrebbero dovuto dimostrare la pericolosità di Saddam Hussein per l’intero Occidente.

Risultato, l’invasione militare e poi il collasso dello Stato iracheno, una delle guerre più sanguinose nella storia moderna del Vicino Oriente, la nuova dittatura (stavolta sciita, e collegata con l’Iran) a Baghdad, un Paese profondamente lacerato, la sostanziale sconfitta del disegno statunitense, e la rivolta di una comunità sunnita dalle cui viscere sono poi nati il messianismo fanatico e il terrore dello Stato Islamico, all’inizio surrettiziamente sostenuto con fondi e armi dall’Arabia Saudita, oggi il principale alleato di Trump nella regione insieme a Israele (a cui la Casa Bianca ha lasciato mani libere sulla questione palestinese).

Se anche gente come John Bolton, con le sue evidenti e pesanti responsabilità storico-politiche, viene reintrodotta nella stanza dei bottoni, c’è davvero di che preoccuparsi, e non sarà certo l’ipotizzato vertice di Trump col nordcoreano Kim a tranquillizzare. Del resto, una fissazione in comune ce l’hanno quelli del cerchio magico attorno a Trump: la voglia di regolare eventualmente anche con le armi la questione dell’Iran e dell’accordo sul nucleare che a torto il presidente si ostina a definire “il peggior accordo mai sottoscritto dagli Stati Uniti”. L’attacco militare a Teheran e al regime degli ayatollah (peraltro ancora camuffato anche con ragioni ‘umanitarie’) è dunque più vicino, o più verosimile, anche per la soddisfazione dell’alleato israeliano. Con la prospettiva di un incendio più devastante di quello che continua a incenerire la Siria e dintorni.

Scenario scontato? Forse no. Forse l’ondata di ragazzi americani che hanno manifesto in oltre ottocento città americane contro il facile uso delle armi in patria, rappresenta un messaggio anche ai troppi ‘dottor Stranamore’ portati da Trump al 1’600 di Pennsylvania Avenue di Washington.

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