L'analisi

Siria: i paradossi di una guerra

“Hanno creato il deserto e lo chiamano pace” scriveva Tacito

26 febbraio 2018
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“Hanno creato il deserto e lo chiamano pace” scriveva Tacito nel denunciare i massacri e le distruzioni compiuti dall’esercito imperiale romano nella conquista della Britannia. Ricorda le parole del grande storico dell’inizio della nostra era, la lunga scia di orrore, in una guerra lunga 400mila morti, che attestano le immagini della Ghouta orientale, nell’area della capitale siriana.

Come in precedenza a Homs o ad Aleppo, la strategia di Bashar al-Assad e dei suoi alleati russi consiste nel fare tabula rasa con massicci raid aerei e ora anche (a detta di una Ong) con barili di esplosivi sganciati da elicotteri. Ad Aleppo gli elicotteri avevano seminato orrore, contribuendo alla sconfitta dei ribelli, colpendo nel ventre quartieri popolari, ma finora temendo i missili terra-aria non erano stati dispiegati nell’area della Ghouta.

Il cessate il fuoco concordato dal Consiglio di Sicurezza, già violato a più riprese, non sembra destinato a reggere in ragione della sua stessa ambiguità. Su pressione di Mosca la tregua non concerne in effetti i gruppi ‘terroristici’, categoria nella quale rientrano in realtà un po’ tutti i movimenti di ribelli, non solo i marchi registrati più noti, come Al Qaeda o Al Nusra.

L’impressione è che Damasco voglia farla finita il più in fretta possibile con l’enclave ribellatasi nel 2013, per poter concentrare le proprie forze sul fronte settentrionale, dove la guerra civile del 2011 è sfociata in una versione regionalizzata di un conflitto mondiale. Le vesti di grande burattinaio di questa nuova fase esplosiva le ha indossate il presidente turco: la sua offensiva lanciata con il beneplacito di Mosca nell’area di Afrin, battezzata con sfacciata perversione “ramoscello d’olivo”, giunge a coronamento di una politica che mira a spezzare le reni ai curdi ma anche a destabilizzare la Siria.

Nella provincia di Idlib (decisiva in quanto ultimo grande caposaldo delle forze ribelli), tra Aleppo e Homs, Recep Tayyip Erdogan sta cercando di sbarazzarsi di Al Qaeda e Al Nusra ma unicamente per appoggiare forze jihadiste a lui fedeli. Mire territoriali ma anche strategia preventiva nella mente dell’autocrate di Ankara: Erdogan vuole soffocare sul nascere qualsiasi velleità dei curdi di realizzare quel sogno di un’entità nazionale nato con il trattato di Sèvres al termine della Prima guerra mondiale.

Un governo regionale in Siria a guida Ypg, le milizie (a maggioranza) curde, si trasformerebbe agli occhi di Ankara in un insidioso cavallo di Troia a disposizione dei curdi turchi del Pkk. La guerra assume i contorni di un disorientante insieme di paradossi: la Russia è alleata di Damasco ma ora anche del suo acerrimo nemico, Ankara. Gli americani, alleati Nato dei turchi, sono schierati con i nemici di questi ultimi, i curdi dell’Ypg. E al fronte curdo-americano sta dando man forte la Forza nazionale di difesa (Ndf), cioè le milizie... del presidente Assad.

Teheran, alleato di Damasco e di Mosca, sta avvicinandosi ai curdi (che, è bene ricordarlo, non sono arabi, ma iranici). Quanto ai sauditi (con qatarioti e kuwaitiani) continuano indisturbati, mentre i loro amici israeliani e americani voltano volutamente lo sguardo altrove, a foraggiare i movimenti jihadisti e/o terroristici sunniti. Tutto sembra dunque purtroppo indicare che questa non sarà solo una guerra dei 7 anni, e che la distruzione sarà portata a termine. Un deserto umano di fronte al quale forse ci scapperà la parola ‘pace’.

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