L'analisi

Un fascismo che ha già vinto

Vincere, non vinceranno

21 febbraio 2018
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Vincere, non vinceranno. Ma già ora si può dire che l’affermazione in termini storici più significativa nelle vicine elezioni italiane l’ha ottenuta l’estrema destra, chiamiamola pure fascista. E senza attendere la sera del 4 marzo, gli italiani dovrebbero interrogarsi sulla sua incontrastata occupazione degli spazi pubblici, fisici e di discorso. La Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista e la sua propaganda non ha più, evidentemente, difensori capaci e autorevoli, o quantomeno interessati.

Da Casa Pound a Forza Nuova, il risorgente fascismo ha approfittato, confondendovisi, del chiasso di una propaganda incentrata sulla questione migratoria (la “difesa della razza” evocata dal leghista Fontana), per produrre una rottura inedita nella continuità storica della repubblica. Una rottura non colta nella sua portata da buona parte dell’informazione, e certamente minimizzata, “coperta”, da una destra che conta di trarne un qualche vantaggio.

L’obiezione più frequente a questa osservazione va in due direzioni. La prima è che il fascismo è morto e sepolto, ed evocarne il ritorno è una falsificazione storica o un escamotage retorico per distrarre da altre emergenze. La seconda vuole infatti che il problema in Italia non sia il ritorno del fascismo, ma il lavoro, l’immigrazione, la crescita.

Argomenti la cui fondatezza è tanto ingannevole quanto più plausibili possono apparire. Il secondo, in particolare, facendo risalire la fortuna dell’estrema destra alla gravità della crisi economica e sociale, confonde grossolanamente sociologia ed esiti politici dei processi.

La prima obiezione è quella più problematica, rivelatrice di una falsa coscienza mai davvero risolta. L’intero dopoguerra italiano è stato percorso da un sotterraneo flusso di revanscismo fascista, tragicamente manifestatosi con stragi e progettati colpi di Stato, sempre però bandito dallo spazio pubblico (complicità di militari e ministri a parte).

La novità di oggi, se tale la vogliamo considerare, è allora la capacità del nuovo fascismo di imporsi come voce attendibile e con diritto di cittadinanza in uno spettro politico quanto mai variegato (e appellandosi alla libertà d’espressione, quando si voglia limitarne le piazzate).

Una novità che però non nasce dal nulla, ma è figlia, da un lato, dell’abbassamento della guardia seguito alla “svolta” di Gianfranco Fini, che credette di liberarsi dell’eredità fascista con un cambio di nome; e, dall’altro, da oltre vent’anni di pedagogia mediatica mirata a plasmare un’opinione pubblica per la quale la cura dei propri mali non può che passare attraverso l’individuazione di un nemico. Alla quale si associa la pluridecennale fortuna dell’impresa di revisionismo storico che ha impegnato pubblicisti e politici di varia caratura. Berlusconi (che portò l’ex repubblichino Tremaglia al governo), le sue tv e i suoi giornali in testa, hanno preparato il terreno su cui anche le sigle, i figuri, i movimenti più impresentabili hanno potuto riprendersi uno spazio, in altri tempi impensabile, fino a trovare posto sulle schede elettorali, in “concorrenza gregaria” con le liste affini, da Meloni a Salvini.

Il guaio è ormai fatto. Il fascio-leghista che ha sparato a Macerata contro un gruppo di africani è sì in prigione, ma molti di coloro che gli hanno espresso solidarietà finiranno in parlamento.

E anche molti di coloro che si sono tenuti al coperto potrebbero venire premiati: quella Roberta Lombardi, ad esempio, candidata alla presidenza della Regione Lazio per i 5Stelle. La quale ha concesso che il suo riferimento è la Costituzione, “ma Mussolini diede le pensioni agli italiani…”.

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