L'analisi

L’eterna illusione dell’‘uomo forte’

Ricordate la guerra in Siria, cominciata nel marzo del 2011?

19 febbraio 2018
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Ricordate la guerra in Siria, cominciata nel marzo del 2011? Ebbene, se semplicemente la ‘ricordate’ fate male. Perché il conflitto che ha provocato più vittime, distruzioni e profughi nell’infinito rosario di tragedie del Medio Oriente (premendo, con i suoi fuggiaschi, anche sulle impreparate democrazie europee) non è per nulla terminato. Come direbbero gli esperti, non è affatto storicizzato, non appartiene cioè al passato, ma continua sotto altra forma. Per nulla più tranquillizzante.

Infatti, se per sette anni la guerra civile siriana è stata anche un micidiale scontro su procura (quindi un confronto indiretto fra potenze esterne, regionali e no), adesso, alla resa dei conti, e nel momento in cui si ritiene di poter celebrare la fine dello Stato Islamico, tutti i protagonisti si ritrovano sullo stesso martoriato territorio, e sull’intera area. E tutti si danno ormai battaglia a viso aperto.

È un teatro di guerra in cui si affrontano in molti, in una complicatissima frammentazione, e dove ognuno cerca di ritagliarsi un ruolo e la sua definitiva zona d’influenza: ci sono la Russia, l’Iran, gli Stati Uniti, Bashar al-Assad, le schegge jihadiste, le milizie che gli sono rimaste ostili, più di recente Israele, e naturalmente la Turchia di un Recep Tayyip Erdogan. Il quale, con la tesi della ‘minaccia esterna permanente’, manipola un focoso e radicale nazionalismo, che sul piano interno si traduce in una feroce repressione antidemocratica, come dimostrano le condanne all’ergastolo di sei giornalisti accusati di ‘intelligence’ con uno dei tanti nemici (in questo caso i seguaci del predicatore in esilio Fehtullah Gülen) che il ‘sultano’ non si inventa, ma esaspera a dismisura, ingigantisce, facendone il pretesto per violare ogni sorta di diritto umano.

È su questa impalcatura, su questa narrazione, e su questi orrori che il satrapo di Ankara ha lanciato la sua offensiva contro i Curdi di Siria, quelle ‘Unità di protezione del popolo’ (Ypg) che si sono rivelate la punta di lancia nella lotta all’Isis e nella riconquista delle loro roccaforti. Il problema è che quegli stessi Curdi godono della protezione (provvisoria?) degli Stati Uniti, mentre sull’altro fronte la Russia di Vladimir Putin, che non vuole compromettere la recente alleanza con l’ondivago leader turco, li abbandona al loro destino. In un polverone di ‘tutti contro tutti’ (in cui si inseriscono anche i duellanti Iran e Israele), gravido di incertezze.

Eppure, fra queste incognite, alcuni punti fermi emergono. Limitiamoci ai due principali, anche dal punto di vista simbolico. Il primo è che due Paesi della Nato (Stati Uniti e Turchia) si affrontano sul suolo siriano esaltando l’incongruenza dell’Alleanza che non perde occasione per proporsi come simbolo di unità e di democrazia (con Erdogan?).

Secondo punto fermo: il protrarsi comunque dei combattimenti, la continuazione del conflitto sotto altra forma, addirittura la sua pericolosa estensione, conferma un dato di fatto: centrale rimane il ruolo del Cremlino (senza il cui sostegno il giovane dittatore Assad non rimarrebbe al potere un giorno in più) ma è ormai chiaro che, come si legge in un’analisi di Mediapart, in Medio Oriente Putin sta dimostrando di “non saper convertire le vittorie militari in vittorie politiche”.

A dispetto di chi scommetteva sui poteri taumaturgici del ‘nuovo zar’. E degli ammiratori degli ‘uomini forti’ ritenuti preferibili alle fatiche del laborioso confronto democratico.

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