L'analisi

L’ospite di riguardo

Gli organizzatori del Wef di Davos possono dirsi contenti della partecipazione di Donald Trump all’edizione di quest’anno

20 gennaio 2018
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Gli organizzatori del Wef di Davos possono dirsi contenti della partecipazione di Donald Trump all’edizione di quest’anno. La dimensione mediatica del personaggio contribuirà senz’altro a ridare lustro agli impolverati fasti di questa peculiare settimana bianca a inviti, ambìti o accettati.

Di qui a confondere un evento mondano con un forum politico generatore di senso, ce ne passa. E se il primo vive di dinamiche proprie (come non ricordare, tra i tanti, una bellissima Sharon Stone a gambe accavallate, debitamente in jeans, ascoltare con affettato disincanto la conferenza di un trombone su come ridurre la povertà nel mondo?), il giudizio politico sui personaggi che lo frequentano non può che essere problematizzato.

Dunque Trump che arriva a Davos e il buon numero di politici e capi di governo che si mettono in fila per avere udienza, devono almeno interrogarci sulla capacità che ha chi detiene il potere di intimorire e insieme di attrarre. Un meccanismo il cui esito – eventuali cortesi obiezioni di altri ospiti, e consuetudinaria ospitalità di cui si è incaricato Berset, a parte – è la legittimazione del personaggio. Questo personaggio.

Si dirà: ne sono passati tanti. Sicuro, ma ciò non esime dal tenere presente chi è il Trump a cui viene offerta la tribuna. Questo è il presidente che più di ogni altro ha fatto del credo razzista la propria ragione ideologica, dell’insulto il proprio linguaggio diplomatico, della menzogna una tavola della legge, della millanteria uno schermo all’inettitudine; che si è dedicato con zelo a cancellare accordi dalla cui applicazione dipendono non solo la salute del pianeta, ma in buona misura le possibilità dei Paesi più poveri di non soccombere al suo peggioramento; che ha reintrodotto per legge la lotta di classe, privando milioni di persone di copertura sanitaria; campione degli istinti predatori di un certo capitale.

Ed è su questo ultimo aspetto che vale la pena riflettere: sulla pigrizia mentale o sulla subalternità intellettuale di chi afferma, ritenendosi di larghe vedute, che sarà comunque utile, vantaggioso ascoltare un “imprenditore di successo” prestato alla politica, e apprenderne la lezione. Trump ha edificato il proprio “successo” praticando un capitalismo di rapina, sfruttandone le opacità, eludendo le leggi con l’assistenza di legali pronti a ogni imbroglio, salvato da ripetuti fallimenti per il rotto della cuffia da banche compiacenti (ripagate con i provvedimenti legislativi più recenti) e da politici affittabili con poca spesa.

Di nuovo, si dirà: ce ne sono tanti così. Ma uno solo è diventato capo della maggiore potenza mondiale, dedicandosi a trasporre nell’esercizio della presidenza quei dettami e quei metodi.

Dunque non guasterebbe distinguere tra la “portata dell’evento” e il significato che, surrettiziamente, gli viene assegnato. In politica l’ascolto è sempre una buona pratica, ma migliori sono il confronto o il contraddittorio. Pretenderli da Trump o dall’occasione fornita dalla sua presenza è non solo vano. È sbagliato.

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