L'analisi

Felicità, avere o essere?

3 gennaio 2018
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La felicità non consiste nell’acquistare e godere, ma nel non desiderare nulla, perché consiste nell’essere liberi. Così ci ammoniva duemila anni fa Epitteto nel suo famoso Manuale, ottima lettura natalizia (Einaudi). Cosa da non crederci. Mai tanto inascoltato come oggi. Perché all’economia, nella quale siamo avviluppati, interessano proprio i desideri tradotti in bisogni, anche fittizi, da acquistare. L’economia ha in astio la felicità, se la felicità significa appagamento.

Verso la conclusione di un anno un rapporto ci informa sullo stato di felicità nel mondo (World Happiness Report 2017). 126 Paesi indagati, molti grafici, i ricercatori, tutti operanti in illustri università, preoccupati di dire che il metodo è rigoroso. I dubbi su questo tipo di inchieste abbondano e nutrono dibattiti tra filosofi, psicologi ed economisti. Questi, come disciplina comanda, sono più interessati al portamonete, ritenendo che la felicità ne sia una conseguenza.

La Costituzione federale non arriva a porre la “ricerca della felicità” tra i diritti inalienabili (come fa la Dichiarazione di indipendenza americana). Ci dice che “libero è soltanto chi usa della sua libertà” (ma bisognerebbe poterla usare) e che “la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri” (il benessere non è quindi solo economia).

Nella graduatoria della felicità la Svizzera è collocata al quarto posto, dopo tre Paesi nordici. Se diamo fiducia al rapporto, che si fonda su parametri oggettivi (reddito pro capite, supporto sociale e solidarietà, salute e aspettativa di vita, libertà di scelta, corruzione ecc.), ma anche sulla percezione soggettiva della felicità (graduata da uno a dieci, attraverso migliaia di inchieste), che cosa potremmo ricavarne di significativo, tra un anno e l’altro?

Che il denaro c’entra nella felicità, anche se non può acquistare tutto. In Svizzera devono far inorridire quei 15mila dollari all’anno dati come soglia necessaria per costituire una garanzia di sicurezza economica. L’80 per cento del pianeta naviga però sotto quella soglia. Quindi la felicità, da questo punto di vista, è molto circoscritta.
Non c’è obbligo di parteciparla. Diventa un’assurdità economica perché impedisce ai desideri fatti bisogni di essere acquistabili.

C’è poi una conferma del famoso “paradosso di Easterlin” (dall’economista che l’ha scoperto): la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito; quando aumenta il reddito e quindi il benessere economico la felicità cresce ma fino a un certo punto, poi cala, insoddisfatta. Contano molto di più i fattori sociali, la solidarietà, la possibilità di realizzare i propri desideri, la qualità di vita offerta, l’ambiente.

Un lavoro stabile ed appagante risulta sempre un fattore essenziale della felicità in tutti i Paesi del mondo. Il deterioramento della felicità negli ultimi dieci anni (in 70 Paesi su 126) è più rilevante là dove sono state adottate terapie neoliberiste, anti-lavoro.

Più che lo stato della felicità nel mondo, abbiamo uno specchio delle cause economiche e sociali che travagliano gli uomini.
Con una constatazione singolare che balza all’occhio scorrendo statistiche e grafici: la taglia del Paese fa la sua felicità; più il Paese è piccolo più alto è il suo quoziente di felicità.
Un ritorno al piccolo è bello. Come la Svizzera.

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