L'analisi

Le origini di un crepuscolo

2 gennaio 2018
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“Come può crollare la civiltà occidentale” a firma Rachel Nuwer è stata, tra le inchieste giornalistiche della Bbc, una delle più significative e apprezzate dell’anno appena trascorso. L’indagine si muove sul filo della storia, partendo dalla caduta dell’impero romano nel V secolo d.C., per parlare del presente e dell’immediato futuro.
Dal passato possiamo apprendere, secondo la teoria dello storico americano Joseph Tainter, che l’incremento della complessità necessita di grandi energie politica e sociale, senza le quali la civiltà crolla. Lo stesso mantenimento dello statu quo esige uno sforzo crescente. Più il mondo è interconnesso, più i problemi richiedono interventi articolati e una visione di lungo periodo.

Il paradosso della nostra contemporaneità consiste proprio nella discrepanza crescente tra la realtà complessa e il potere politico vieppiù nelle mani dei populismi – siano essi di destra o di sinistra – rassicuranti nelle loro semplificazioni, nei loro prêt-à-porter nazionalistici e/o ideologici, ma proprio per questo inadatti di fronte alle grandi sfide epocali.

Tra gli elementi che storicamente accelerano maggiormente il declino delle civiltà, sostiene il teorico dei sistemi complessi Safa Motesharrei, vi sono la stratificazione sociale e il rapporto con l’ambiente (risorse disponibili). Le più recenti statistiche lasciano pochi dubbi al riguardo: le otto persone più ricche al mondo possiedono un patrimonio equivalente a quello di tre miliardi e 600 milioni di persone (rapporto della Ong britannica Oxfam), mentre il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 90% dell’inquinamento.

L’esplosione delle disuguaglianze, in buona parte conseguenza dei processi di privatizzazione e deregolamentazione, è pressoché universale e particolarmente dirompente in India, Russia o Cina. Statistiche, inchieste, conferenze (come quella di Parigi sul clima) non fanno che attestare una situazione globalmente insostenibile. Perché allora i governi non forniscono quelle scelte razionali che lo spettro del disastro imporrebbe? Perché, si chiedeva l’intellettuale americano Noam Chomsky poco più di un anno fa, l’elettorato americano di fronte alla doppia prospettiva di catastrofe (nucleare e ambientale) ha scelto l’opzione peggiore (Trump)?

Interrogativi le cui risposte convergono su alcune ipotesi, prima fra tutte quella semplice che fornisce ancora il professor Motesharrei: i costi a corto termine sono più alti intervenendo che non intervenendo. Nella postmodernità dove l’indignazione tende a essere priva di progetti e dove l’estetica dei consumi sembra aver sostituito l’etica, la politica, anche per la tempistica dettata dai calendari elettorali, si iscrive proprio nell’ottica del corto termine. La narrazione vincente è quella del guadagno immediato: meno costi, meno tasse, più vantaggi materiali individuali. Il tutto spesso infarcito di retorica nazionalistica.

In sottotraccia il mantra: meno Stato, meno servizio pubblico, meno bene comune. Più libertà. La politica, prima vittima di quei processi di globalizzazione che hanno spostato la sovranità sul fronte dei mercati, sarà un giorno in grado di ritrovare il passo necessario per gestire la complessità delle nostre società? Una domanda che potrebbe essere formulata anche così: il canto delle sirene dei populismi si protrarrà a lungo? Qualche risposta forse dalle urne, nella serie di elezioni che contrassegneranno il nuovo anno; dall’Italia, alla Russia agli Stati Uniti.

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