L'analisi

L’indipendenza non è un voto

(Quique Garcia)
22 dicembre 2017
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L’insieme dei partiti indipendentisti catalani ha di nuovo i numeri per essere maggioranza nel parlamento regionale. Una buona maggioranza ma non schiacciante, la cui solidità dipenderà soltanto da loro (ciò che, al di là della facciata, non è più garantito). Come sembrano confermare i dati resi noti nelle prime ore successive alla chiusura dei seggi, i rapporti di forza nell’assemblea resteranno più o meno gli stessi. Anche per questo – ma tutti gli analisti e i politici più sinceri lo avevano indicato prima ancora del voto – ritenere che il risultato sia risolutivo o foriero di una soluzione a una situazione in larga parte compromessa sarebbe una grande illusione.

Piuttosto, a testimoniare la maturità democratica dei catalani (unionisti o secessionisti che siano); a smentire una propaganda interessata che vantava una “grande partecipazione popolare” al referendum del primo ottobre; e a richiamare i due schieramenti alle loro responsabilità, vi è stata un’affluenza alle urne questa volta largamente superiore. Gli elettori catalani hanno fatto ciò che competeva loro, perché di tutti loro si trattava, e non di una forzatura velleitaria di una sola parte. E – seconda lezione – stante il risultato, l’interpretazione del voto come un plebiscito per o contro la secessione si è dimostrata anch’essa fuori luogo. Se sarà cioè possibile alle formazioni indipendentiste formare una maggioranza analoga a quella del parlamento sciolto d’autorità da Madrid, è anche vero che primo partito (o comunque in lizza con l’aggregazione che fa capo all’ex presidente Puigdemont per diventarlo) è risultato Ciutadans, filiazione catalana di Ciudadanos, più di tutti schierato per l’indivisibilità della Spagna.

Come potrà dunque riprendere il confronto con lo stato spagnolo, a elezioni avvenute, ma con immutate posizioni?

Il fronte secessionista, con parte della dirigenza incarcerata o riparata all’estero, ha superato una prova difficilissima, dimostrando che la ritorsione – costituzionalmente legittima – decisa dal governo di Mariano Rajoy dopo la dichiarazione di indipendenza ha finito semmai per galvanizzare non soltanto i militanti più motivati, ma anche quella parte di elettorato catalanista più “tiepido” o che si poteva supporre stanco e deluso. Il segnale nei confronti di Madrid non poteva essere più chiaro.

Ma il difficile arriva adesso. Non solo perché le imputazioni nei confronti dei dirigenti rimossi restano valide e gravi, e non sarà questo voto a toglierli di prigione. Ma anche perché, e si suppone che anche i più determinati dirigenti secessionisti ne siano ormai consapevoli, non solo la via unilaterale all’indipendenza è impraticabile, ma lo è anche quella negoziale, almeno finché a Madrid non cambieranno governo (la fortuna di Rajoy è destinata a esaurirsi) e, soprattutto, costituzione. La maggioranza ottenuta a Barcellona, in altre parole, è poca cosa alle Cortes, dove è ben improbabile che possa passare una riforma costituzionale che vada oltre un riconoscimento più sostanziale delle autonomie regionali.

In questo senso, la disputa non avviene soltanto con Madrid, ma all’interno del fronte indipendentista stesso, che potrebbe spaccarsi sulle modalità di negoziazione e persino sull’obiettivo finale. Già in ottobre, la minaccia della sinistra radicale di far mancare i propri voti al governo costrinse Puigdemont a proclamare una repubblica che, per lui, avrebbe anche potuto attendere. E si sa com’è andata. Se l’attitudine non è cambiata nel frattempo, si sa anche come andrà.

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