L'analisi

Twitter in chief

4 dicembre 2017
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Uno stillicidio senza fine di dichiarazioni unilaterali. Quasi una litania diplomatica. A tal punto che ormai passano quasi inosservate le decisioni di disimpegno dal consesso internazionale.
L’America di Trump mira a diventare “great again”. Sarà. Ma per il momento si sta rimpicciolendo, moralmente e politicamente.

L’ultima “fuga” in ordine di tempo è quella, annunciata dall’ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley, dal patto mondiale sulla migrazione, un accordo siglato a New York due anni fa e che dovrebbe essere implementato il prossimo anno.
La lista si allunga ormai a dismisura. Ancora fresco l’annuncio del 12 ottobre: gli Stati Uniti avevano annunciato il ritiro dall’Unesco in quanto considerata “anti-israeliana”. L’annuncio, lo scorso primo giugno, dell’uscita dagli accordi di Parigi sul riscaldamento climatico (concluso due anni fa e siglato da tutti i Paesi del mondo) fa degli Stati Uniti ormai un paria in materia di politica ambientale.

Logica conseguenza, il rilancio anacronistico del settore carbonifero americano annunciato con spavaldi toni trionfalistici dallo stesso Trump. A colpi di tweet maneggiati a ritmo compulsivo, il presidente ha denunciato il Tpp, il partenariato transpacifico firmato nel 2015 da undici Paesi della regione Asia-Pacifico; ha deciso di rinegoziare il Nafta (libero scambio con Messico e Canada); ha attaccato Germania e Italia per il loro presunto protezionismo; ha ventilato l’ipotesi di un’uscita dall’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) in quanto i suoi regolamenti impediscono l’applicazione della “Border Adjustement Tax”, disposizione unilaterale che favorisce le esportazioni americane a scapito degli importatori. Senza dimenticare, last but not least, gli attacchi ripetuti contro l’accordo nucleare iraniano, firmato nel 2015 da Teheran con il gruppo 5+1 (i Paesi membri del Consiglio di sicurezza, oltre la Germania) e questo malgrado le garanzie ribadite dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica.

Nella “compilation” del presidente, si potrebbero aggiungere innumerevoli altre prese di posizione: dall’ulteriore rafforzamento del “bloqueo” con Cuba, alle invettive lanciate contro la premier britannica Theresa May rea di aver reagito con sconforto alla diffusione da parte dello stesso Trump di un video girato da un gruppo xenofobo di estrema destra.

Nella sua foga isolazionista e americanocentrica il presidente non risparmia nessuno. Sotto il suo rullo compressore la prossima vittima designata sembra essere Rex Tillerson. Il ministro degli Esteri, contrario in particolare al disimpegno dalla Cop21, sembra avere i giorni contati. “Si sente castrato da Trump?” gli aveva chiesto in ottobre un giornalista della Cnn. “Mi sono guardato e sono ancora integro” aveva replicato il capo della diplomazia, al quale un umorista ha recentemente consigliato di verificare… di nuovo.

L’isolazionismo fa parte della tradizione americana, è una politica seguita agli albori della nazione (da George Washington alla fine del XVIII secolo a James Monroe negli anni 20 di quello successivo) e tra le due guerre del XX sec. Ma nella forma aggressiva e scomposta di Donald Trump rischia di costituire un serio pericolo per tutti (ambientale e militare) e di degradare ulteriormente ruolo e immagine di una potenza che dopo la caduta del muro e la fine dell’Urss i più ingenui immaginavano come faro della democrazia, leader di una nuova armonia planetaria.

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