L'analisi

Il volto di Kurz, la destra di Strache

17 ottobre 2017
|

Una cosa la sa già, Sebastian Kurz: se costituirà una maggioranza di governo con l’estrema destra, il giovanissimo cancelliere del Partito popolare austriaco non dovrà temere sanzioni da parte europea. Un’altra la sa, e l’ha detta, Heinz-Christian Strache, leader del partito liberale (Fpoe), cioè capofila di quella stessa estrema destra: “Il sessanta per cento degli austriaci ha votato il nostro programma”.

Ed è così, infatti. Kurz ha reindirizzato il Partito popolare e impostato la propria campagna elettorale sui temi in precedenza appannaggio esclusivo dell’Fpoe. Dal rifiuto dei migranti al fastidio per l’invasività della politica europea nelle faccende domestiche. E ha vinto, ben sapendo che l’Europa di oggi non è più quella che nel 1999 impose (blande) sanzioni a Vienna, dopo l’ingresso in governo dell’Fpoe di Jörg Haider. Non lo è più a livello di esecutivi, contandone molti in cui è l’estrema destra a dettare l’agenda o a occupare i posti di vertice. E non è più lo stesso il suo tessuto sociale, per quanto possa essere rappresentato dalle scelte elettorali: il successo delle liste nazionaliste e xenofobe ne è un segnale certo, e il travaso delle loro istanze nei programmi dei partiti “moderati” lo conferma al di là di ogni dubbio.

Strache, naturalmente, ha fatto la sua affermazione cercando di sfruttare il momento, ma è andato vicinissimo al vero, sintetizzando in forma estrema uno scenario che si è già manifestato altrove in Europa. Ovunque, dove la crescita delle formazioni di estrema destra supera una soglia considerata allarmante, i partiti moderati (ma anche gli organi d’espressione dell’opinione pubblica) ne stigmatizzano dapprima le asperità propagandistiche e la radicalità dei programmi, poi li metabolizzano, li fanno propri, abbigliati di una veste più presentabile. E non guasta se a farsene leader e testimonial sono personaggi di sicuro appeal mediatico: e Kurz lo è nella versione austriaca.

Il risultato di questa operazione è duplice. Uno: raramente l’estrema destra viene annichilita dallo “scippo” dei suoi temi da parte della destra “moderata”, e anche dove non ottiene la maggioranza si rafforza. Due: se è vero che “il sessanta per cento degli elettori ha votato il nostro programma”, vuol dire che il processo di egemonizzazione del pensiero comune è a buon punto di compimento (in Austria, in Olanda, ma anche nella Germania di Angela Merkel, e persino in Francia, dove troppo frettolosamente si è voluto seppellire il fantasma dell’estrema destra insieme alle ambizioni di Marine Le Pen, in attesa di conoscere quale forma prenderà in Italia).

Certo, non dappertutto l’esito di questo processo, almeno in termini di configurazione dei governi, è lo stesso, né ci si può spingere oltre le analogie tra quanto avviene negli Stati citati sopra e quelli dell’ex Est Europa. Ma anche a questo proposito il caso austriaco è esemplare: a Vienna, i vincitori di domenica stanno già tentando di accreditarsi come “ponte” tra Ue e i riottosi membri dell’Europa centrale (i cosiddetti “Paesi Visegrad”). Di più: come capofila di una “diversa Europa” in seno a quella di Bruxelles. Tralasciando il nostalgico folklore da rediviva Mitteleuropa, il problema è serio.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔