L'analisi

L’occasione persa da San Suu Kyi

20 settembre 2017
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“Non puoi più tacere”, aveva ammonito Desmond Tutu. E con il leader anti-apartheid, altri dodici laureati del Nobel della Pace, oltre a innumerevoli personalità, a chiedere che l’icona mondiale della lotta non violenta rompesse il silenzio per denunciare la repressione della minoranza Rohingya. La leader di fatto del governo birmano si è vista poi rovesciare addosso una valanga di accuse di ignavia e ipocrisia.
Ieri, finalmente, ha parlato. Ma limitandosi, in sostanza, a dire che vi è un problema, che non pochi musulmani hanno abbandonato il Paese, che si indagherà, e – maldestra – ha voluto rassicurare: “La metà dei villaggi rohingya sono intatti”, lasciando così capire che l’altra metà sarebbe stata distrutta.

Aung San Suu Kyi si era limitata finora – in una telefonata al presidente turco Erdogan – a stigmatizzare le presunte “fake news”, negando che nel Rakhine, la provincia occidentale del Paese dove vive quell’etnia musulmana, vi fosse in atto una spietata pulizia etnica.
Non vi è dubbio che quell’“iceberg di disinformazione” stigmatizzato dalla leader birmana sia una realtà: il vicepremier turco nel denunciare il massacro antimusulmano ha twittato quattro fotografie di presunte vittime del pogrom, che in realtà ritraggono cadaveri galleggianti di passeggeri di un ferry naufragato lo scorso anno, o incidenti etnici in... Indonesia 13 anni fa.

Non vi è neppure dubbio che tra i Paesi che oggi puntano il dito contro i militari birmani vi siano nazioni musulmane (dalla Malesia, al Pakistan) ben poco esemplari nei confronti delle loro minoranze religiose. E corrisponde pure a verità che a scatenare l’ondata repressiva è stata la serie di attacchi mortali lanciati dagli indipendentisti dell’Arsa, foraggiati dagli ineffabili sauditi, contro posti di polizia nella fascia di frontiera.
Tutto vero. Ma altrettanto reale è l’esodo massiccio di civili a cui sono stati incendiati o rasi al suolo i villaggi e che affollano ora in Bangladesh quello che è divenuto in tempo record uno dei campi profughi più grandi del mondo.

L’ennesima tragedia di un mondo in cui i diritti umani, dopo l’illusione seguita alla caduta del muro di Berlino (il politologo Francis Fukuyama aveva predetto il trionfo storico delle democrazie liberali), sono considerati palesemente a geometria variabile.
Aung San Suu Kyi forse intimorita dai militari, ha in pochi giorni perso quella credibilità e quel carisma che distinguono un leader morale da un semplice dirigente politico. La battaglia per i diritti umani ha subìto negli ultimi anni pesanti arretramenti. Vi è sempre una buona scusa per giustificare violazioni dei diritti più elementari: gli Usa con Guantanamo e le uccisioni mirate; Assad e i massacri di oppositori; Putin e il suo neoimperialismo omicida; Cuba e l’ormai sessantennale assenza di diritti civili e politici; la Cina e il primato delle esecuzioni capitali; la brutale Arabia Saudita che si schermisce invocando la difesa dell’ortodossia sunnita; l’Egitto che fronteggia il pericolo islamista a colpi di condanne a morte.

Paesi molto diversi ma che non citiamo a caso: sono quelli che non aderiscono alla Corte penale internazionale. Come dire che avocano a sé il principio dell’immunità. Il caso della Birmania è dunque emblematico di una comunità internazionale priva di veri leader, che si è messa su un piano inclinato. La persona che forse più di qualsiasi altra incarnava principi universalistici ha perso la storica occasione di lanciare un segnale al suo Paese e al mondo: i diritti umani sono semplicemente imprescindibili.

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